Un vino internazionale: quale enologo non è dovuto cimentarsi?
Il cosiddetto boisè o legnoso che sia, era indispensabile anni fa per andare alla conquista dei mercati, era decisamente di moda, trendy dicevano gli inglesi.
Il vino doveva essere impregnato di boisè-legno, dappertutto, nel profumo, nel sapore, e poi, imperativo, nella filosofia aziendale , nei listini commerciali estero e interno, nelle immancabili medaglie ai concorsi o segnalazioni sulle guide e infine nel carisma del supertecnico.
In tanti modi, ancora oggi, si può ottenere il boisè: si possono usare le botti grandi, in questo caso l’enologo che proponga di abbonire il legno con un po’ di soda Solvay rischia l’immediato licenziamento, oppure le botti piccole dette barriques quest’ultime si possono usare in modo intelligente o meno.
Ma ci sono le scorciatoie, veloci ed economiche.
Da anni si usano doghe, asticelle, cubetti, trucioli e polvere ottenuti dalla lavorazione del rovere.
Sono disponibili in varie tipologie, di conseguenza variano dimensioni, granulometria e grado tostatura.
I metodi di utilizzo sono vari: dispersione –è il più usato -, attaccati parerti recipiente, cestelli inox immersi nel vino, in alluvionaggio in filtrazione per le polveri.
Diffuse negli ultimi anni le doghe in legno –sistema Interstave –ovvero attaccate ai pareri inox –quindi immerse nel vino.
Anche in fermentazione sui bianchi e rossi.
Di norma questi metodi si usano in alta concentrazione su partite di vino, che poi vengono diluite opportunamente.
Soffermiamoci sui cosiddetti chips o trucioli di rovere americano.
In vero oggi un po’ in ribasso, ma alcuni li usano e in modo massiccio.
Basta metterli in infusione nel vino…il boisè arriva garantito
La granulometria e la tostatura dei trucioli variano sensibilmente.
Si utilizzano in dose di 150 -300 grammi per quintale, il tempo di contatto varia da a 4 settimane in genere. Il vino è opportuno sia stabilizzato precedentemente.
In genere i costi di gestione utilizzando queste tecniche alternative sono molto inferiori.
Anche 80 % rispetto alla classica barrique.
Problemi si hanno per un eventuale riutilizzo: se il materiale lo consente è indispensabile occorre curare al massimo l’igiene, onde evitare probabili inquinamenti batterici al vino.
Preciso che sono illegali nella Cee, inoltre il sapore legnoso che conferiscono non è per nulla stabile, anzi può deviare verso note olfattive “pesanti “e con il passare degli anni, verso un gusto “di amaro” per nulla piacevole.
I vantaggi più certi sono sulla stabilità del colore.
Una recente legge, ripresa da alcuni quotidiani evidenzia limiti di cessione dei contenitori a contatto con il vino.
La dose massima consentita è di 5 mgr per litro al mese. Aumentano in tal senso i problemi legali.
Altri problemi li solleva l’O.I.V che ha in progetto di fissare dei limiti massimi delle sostanze cedute al vino dai trucioli, in particolare clorofenoli e benzopirene.
Si segnalano anche cessioni- seppur in nanogrammi per kg pertanto minimali – di piombo zinco e altri metalli pesanti.
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Spesso sui trucioli anziani enologi, mediatori, commercianti restano perplessi, qualche volta ironizzano pure: l’utilizzo dei trucioli non è assolutamente una novità, anzi si tratta di una pratica antica e molto diffusa, la novità sta nel risultato che si vuole ottenere oppure non ottenere.
Una volta si usava solo legno di pioppo considerato assolutamente neutro, non doveva cedere nulla, oggi si usa solo legno di rovere in quanto deve cedere tutto.
Vediamo allora alcuni accenni storici sulla pratica dei trucioli.
In Piemonte, la pratica dei trucioli giunse dal veronese a fini ottocento. Come si procedeva?
Sentiamo un anziano enologo: “In un recipiente vasca o serbatoio si mettevano dei trucioli di pioppo. Sul pavimento del recipiente erano stati sistemate precedentemente assi ad un’altezza di 5 cm. I trucioli erano semplicemente trecce di legno di 50 cm di lunghezza, 1 cm di larghezza e 0,1 -0,2 mm di spessore. Importante era il legno neutro, solamente alcune qualità di pioppo andavano bene. Si riempiva il recipiente sino a tre quarti del volume facendo attenzione a pestare bene i trucioli, evitando pericolose sacche d’aria, infine si copriva il tutto con delle assi e delle pietre di Luserna.
Si procedeva all’abbonimento: dapprima solo acqua per 3-4 giorni, cosi si assestavano i trucioli nella vasca, poi una soluzione di acqua e soda Solvay al tre per cento per 6- 7 giorni, poi si riempiva il recipiente con il vino.
Il primo non era pregiato, usavamo bianco Romagna o Puglia ed eravamo attenti negli assaggi, onde evitare gusti di legno;,in seguito si procedeva con il Barbera del Monferrato.
Il tempo di contatto del vino con i trucioli variava, in genere non era superiore a tre-quattro giorni giorni.
Lasso di tempo sufficiente in genere per ottenere i risultati.
Quali ?
Molteplici per l’enorme superficie di contatto legno -vino :
Innanzitutto si depositavano sui trucioli lieviti e batteri, per cui si completava l’eventuale fermentazione alcolica con esaurimento di zuccheri residui, si avviava la fermentazione malolattica grazie all’ambiente anaerobico.
L’abbassamento dell ‘acidità fissa-anche 1,5 gr. per lt – la formazione di acido lattico rendevano il vino più morbido ed armonico, la leggere presenza di anidride carbonica-dovuta alla fermentazione malolattica ne esaltava la fragranza.
Il vino inoltre subiva una filtrazione con omogeneizzazione e migliore limpidezza, grazie anche alla combinazione delle proteine- cedute dall’autolisi del lievito- ed i tannini del vino.
C’era anche un’azione stabilizzante in quanto sui trucioli si formava bitartrato di potassio,che catalizzava la precipitazione di questo sale, se in eccesso”.
Racconta un altro enologo :” Iniziò mio padre a produrre trucioli, era il 1935, nel cortile dell’antico mulino di via Vivaro in Alba.
Con una macchina in legno costruito in proprio lavorava pioppi nostrani ed in seguito i primi ibridi canadesi,le “Caroline”, ma non l'”arbrun” qualità di pioppo che dava cattivo odore al vino.
Sino agli anni sessanta, poi cambiavano i tempi, da un lato l’introduzione dei primi filtri pressa Dalcin e Gasquet, dall’altro l’indifferenza, se non l’opposizione del mondo accademico, in particolare la scuola enologica di Alba, che consideravano tale pratica quasi da imbroglioni, favorirono l’abbandono graduale di questo sistema”.