5–UN MESTIERE CHE SCOMPARE
A -Ditta Graziano- frammenti di memoria
L’attività industriale della Graziano nel settore della produzione di barili e botti in legno ha inizio nel 1882 a Valenza Po, dove il mio bisnonno apre uno stabilimento con circa un centinaio di operai. Occorre precisare che in quegli anni, e fino all’invenzione delle materie plastiche negli anni cinquanta, la botte in legno è il contenitore per eccellenza, dall’olio minerale alla frutta e al vino; botti in legno erano le cisterne da trasporto per i primi autocarri e per i vagoni ferroviari. L’attività produttiva è pertanto particolarmente florida, tanto che nei primi del ‘900 il mio bisnonno apre un ufficio di rappresentanza negli Stati Uniti, a New York: sono gli anni del proibizionismo e grandi quantità di doghe di botti smontate lasciano gli Stati Uniti via nave per essere rilavorate nello stabilimento di Valenza.
Negli anni Trenta, mio nonno, nel frattempo succeduto a suo padre, trasferisce la sede produttiva a Busalla, in provincia di Genova. E’ curioso ricordare che anche negli anni
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difficili della seconda guerra mondiale l’attività prosegue a ritmo serrato: importanti le forniture per il Regio Esercito di botti da soma, utilizzate per il trasporto a dorso di mulo.
Nell’immediato dopoguerra, la ditta si trasferisce da Busalla a Voghera.
Gli anni cinquanta e sessanta vedono da un lato la drastica riduzione della produzione di barili e botti per uso non strettamente enologico, progressivamente soppiantati dai contenitori in materia plastica, dall’altro un aumento della produzione di botti e tini in rovere per vino e distillati: tra i clienti le più importanti cantine in Italia e all’estero.
Gli anni settanta segnano purtroppo l’avvento della crisi della botte: vasche in cemento, vetroresina, acciaio inossidabile, contenitori più “pratici” di quelli in legno, decretano la fine (temporanea, per fortuna!) dell’utilizzo della botte per l’affinamento e l’invecchiamento del vino.
La crisi determina la scomparsa non solo di realtà industriali come la Graziano (ma non si possono neppure dimenticare altri “storici” nomi dell’industria delle botti in Italia: Italbotti-Damian in Veneto e Comola a Milano) ma anche l’estinzione delle piccole realtà artigianali che da sempre sono state presenti sul nostro territorio: mi riferisco alle botteghe dei bottai che, oltre ad una piccola produzione, assicuravano la manutenzione delle botti nelle cantine. Il mestiere del bottaio ai giorni nostri, nonostante il considerevole ritorno all’utilizzo della botte in legno cui si è assistito negli ultimi anni, è senz’altro da considerarsi a rischio di estinzione, in considerazione anche del fatto che tale arte non la si apprende nè a scuola, nè sui libri, ma bensì “sul campo”.
Per quanto mi riguarda ho rilevato da alcuni anni la piccola attività artigianale che mio padre, dopo la chiusura dello stabilimento, ha mantenuto.
Oltre alla produzione di botticelle per aceto e distillati e di mastelli in legno, mi occupo della manutenzione di barili, botti e tini.
In particolare eseguo lavori di riparazione (sostituzione di doghe, fondi) e di piallatura interna delle doghe (la cosiddetta “asciatura”), operazione che consiste nell’asportare mediante un pialletto i tartrati che si depositano sulle pareti interne delle botti e che riducono progressivamente il passaggio dell’ossigeno dall’ambiente esterno al vino.
La piallatura può essere fatta anche sulle barriques, accompagnata spesso da una leggera “ritostatura” a fuoco di legna per restituire in parte le note tostate tipiche.
Il sogno nel cassetto è naturalmente quello di tornare a produrre, così da poter rivedere nelle cantine “la foglia di quercia con la ghianda”, marchio che da 120 anni contraddistingue le botti “Graziano”.
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B—UN LAVORO MASSACRANTE E RISCHIOSO
Ditta Penna -Portacomaro (AT)
Ecco una testimonianza di un anziano bottaio, raccolta molti anni fa, relativa alle cantine Mirafiore – Serralunga d’Alba
Siamo intorno al 1920.
“Molti anni fa uscì una legge che vietava l’uso del legno nella fabbricazione della
birra. Si poteva usare solo ferro smaltato o acciaio. Le fabbriche tedesche di birra erano
piene di botti in rovere, in genere piccole, circa quaranta ettolitri: di eccellente qualità,
con la pece gialla all’interno. Era un trattamento alle doghe per impermeabilizzare la
botte dall’interno. In tal modo la birra non andava a contatto diretto con il legno e non
risentiva dell’ossigeno dell’ aria. Con il vino il discorso era diverso, ma il rovere era trop-
po buono –anche perché doveva resistere ad una certa pressione – e allora migliaia di botti ex birra in quegli anni si riversarono sui mercati di Milano, Casale, Alessandria, Tortona, nel Veneto, sino alla Toscana. Era ottimo materiale, di seconda mano, ad un prezzo interessante, bisognava solo togliere la pece gialla,ovvero abbonirle.
Era un lavoro difficile, molto , ma c’è gente che avrà guadagnato molti soldi e perso tanto in salute. Si entrava nella botte, il passo d’uomo in genere era piccolo e non tutti entravano. Con uno scalpello si cercava di togliere lo strato di pece gialla spesso tre o quattro millimetri. Veniva via abbastanza bene. Poi si doveva vaporizzare il legno per togliere gli ultimi residui di pece e per abbonirlo. Si sudava moltissimo, i vapori di pece facevano tossire, si doveva cercare di togliere tutto pulendo bene il legno tra doga e doga. Un lavoro balordo, tra fumo e gas, molti non resistevano ed uscivano subito”.