1- ROBERO VEZZA –ENOLOGO- CANTINE MARCHESI DI BAROLO
Molti sono stati i mutamenti, durante gli ultimi 20 – 30 anni nel modo di fare vino rosso: le cure al vigneto, le modalità di macerazione, la tecnica dell’invecchiamento. Quest’ultima ha addirittura cambiato nome; oggi si tende a definire questo processo “affinamento” e non solo perché il nome è più elegante, ma soprattutto perché attualmente il mercato richiede che i vini con alcuni anni di vita siano strutturati e corposi, ma morbidi e vellutati e che conservino la
19
fragranza e il fruttato della gioventù, senza note ossidative o sensazioni maderizzate, che invece erano tollerate e, anzi, piacevano un tempo.
Anche per quanto riguarda il colore si cercano le tonalità del rubino, del granato, mai aranciato o “mattonato”.
Tutto ciò ha cambiato radicalmente la tecnica di affinamento.
Oggi si dà moltissima importanza all’evoluzione del vino in ambiente ridotto, cioè in bottiglia, mentre la sosta in ambiente ossidativo, cioè nelle botti di legno più o meno grandi (comunque altrettanto importante, se non di più) serve soltanto a prepararlo al successivo affinamento in bottiglia.
Consideriamo ora la microssigenazione, processo che ha fatto molto parlare di sé negli ultimi tempi. In proposito si è visto che i grandi vini rossi da invecchiamento hanno bisogno di ossigeno per evolvere positivamente, soprattutto per la condensazione degli antociani con i tannini, antociani che abbiamo imparato ad estrarre con un più attento uso della temperatura in fermentazione, ma che dobbiamo poi fissare, facendoli appunto reagire con i tannini. Ed ecco che, contrariamente a quanto si faceva un tempo, oggi si va prestissimo nel legno (alcuni produttori addirittura subito dopo la svinatura), sicuramente appena terminata la malo-lattica, in ogni modo ancora nell’anno della vendemmia; nel legno nuovo, naturalmente, perché dopo un po’ di anni le doghe delle botti perdono la loro porosità all’aria. Microssigenazione naturale, quindi, attraverso un precoce utilizzo del legno nuovo.
Ovviamente il legno non si ferma alla micro-cessione graduale dell’ossigeno; i tannini nobili della quercia contribuiscono alla condensazione di quelli del vino, pertanto all’evoluzione positiva del colore e della rotondità degli stessi, che aumentano il peso molecolare, diventando più morbidi. Inoltre alcune sostanze odorose del legno (soprattutto se tostato) contribuiscono ad arricchire il suo bouquet.
Sono cambiati pure i tempi di permanenza; una volta si lasciava il vino anche alcuni anni nel legno, mentre oggi 12 – 18 (al massimo 24) mesi sono più che sufficienti.
Variata è anche l’età della botte; se è vero che il legno ha funzione di microssigenare, di cedere tannini nobili e sostanze odorose che arricchiscono il vino, è altrettanto vero che questo si verifica tanto più la botte è nuova; da vecchia non dà più tutto questo, quando non trasmette addirittura sentori e gusti sgradevoli.
Il punto focale che ha decretato lo straordinario successo delle barriques in Langa, (ma direi in tutto il mondo), è proprio questo: il loro benefico effetto sul vino, dovuto più all’età che non alle dimensioni, è stato paragonato a quello delle botti vecchie di grande capacità. Ed è questo
20
che bisogna rimarcare: è stata l’età, più che la dimensione dei contenitori a fare la differenza, tant’è vero che alcuni produttori stanno tornando ai grandi fusti, nuovi, però.
Nel periodo della permanenza in legno, il vino ha bisognosi essere controllato sovente. Una certa quantità di solforosa libera è necessaria per una corretta evoluzione, mentre colmature almeno mensili ci pongono al riparo da brutte sorprese.
Se il vino è stato messo prestissimo nel legno, occorre anche fare un travaso o due nei primi dodici mesi.
Non è facile stabilire il periodo ideale per togliere il vino dalle botti e passarlo in bottiglia; di solito coincide con il momento in cui esso smette di diventare rotondo e morbido, per ricominciare a divenire spigoloso e asciutto. Pertanto solo con la degustazione attenta e costante e con la propria esperienza personale si può determinare questo momento.
Per iniziare il lungo affinamento al riparo dall’aria il vino passa quindi in bottiglia e in questa fase sono indispensabili una buona filtrazione per ridurre la carica microbica e un’aggiunta di solforosa per proteggerlo dall’ossidazione, perché in seguito non si può più intervenire, ma unicamente osservarne l’evoluzione, sperando di aver dosato in modo corretto tutti i vari processi di elaborazione.
2- GIUSEPPE CAVIOLA – CONSULENTE ENOLOGO
“Anni di attività in diverse regioni italiane mi hanno insegnato a non dar mai nulla per scontato, ma a cercare di mediare le tecniche di base con le particolarità che ogni realtà locale porta con sé.
Per evitare, perciò, di essere troppo generico, ho preferito riferirmi alla realtà nella quale sono nato e mi sono formato, cioè a quella dei grandi vini rossi di Langa: Dolcetto, Barbera e Nebbiolo, iniziando proprio da questi ultimi due.
Diamo per scontato che l’annata sia stata soddisfacente e che la macerazione abbia fornito
una sufficiente quantità di polifenoli di buona qualità.
Effettuo la svinatura a prodotto ormai secco o con pochi grammi/litro di zuccheri residui.
A fermentazione terminata, attendo qualche giorno per lasciar decantare le fecce grossolane, poi vado direttamente in barriques.
La percentuale tra fusti nuovi, di primo e di secondo passaggio viene definita in base alle caratteristiche del prodotto (struttura e qualità del corredo polifenolico) ed alla filosofia di produzione delle diverse aziende.
21
Dove la situazione logistica lo permette utilizzo un locale ampio e riscaldato, così da poter posizionare le barriques su un unico livello ed effettuare agevolmente frequenti batonnages: il risultato in termini di pulizia dei profumi e di aumento della sensazione di “grasso” in bocca ripaga dello sforzo di manodopera che richiede.
La fermentazione malolattica, grazie al controllo della temperatura, inizia in genere molto presto e si completa, talvolta, già a Dicembre.
A questo punto, procedo ad un travaso all’aria in una vasca dove il vino si omogeneizza, poi torno nelle barriques per proseguire l’affinamento.
Normalmente a fine estate effettuo un travaso che, oltre a rimuovere le fecce fini, è anche utile per omogeneizzare nuovamente il vino che sosta in barriques di differente età e provenienza.
La sosta in barriques dura, nella maggior parte dei casi, da 13 a 18 mesi in totale cui può seguire, laddove il vino lo richieda, un ulteriore passaggio di qualche mese in botti più grandi, dove l’affinamento si completa con effetti più di “finitura”.
Per quanto riguarda, invece, il Dolcetto, nella grande maggioranza dei casi avviene in contenitori non di legno, con travasi che precedono e seguono la fermentazione malolattica, sino poi al mese di Settembre, quando l’evoluzione organolettica è finalmente quella ricercata e si può andare in bottiglia.
Accanto a questa tipologia classica, da qualche anno sto utilizzando altre tecniche, riferite ad un ambito più ristretto ma che si sono rivelate piuttosto interessanti.
La prima è la micro-ossigenazione.
Il Dolcetto da sempre presenta una certa tendenza alla comparsa di odori di riduzione.
Allo stato delle mie esperienze, direi che la micro-ossigenazione, specialmente su vino molto giovane permetta di controllare meglio il livello di riduzione (il cosiddetto potenziale RedOx), impedendo o riducendo molto i rischi di comparsa di composti solforati.
Normalmente inizio dopo il primo travaso, con dosi di alcuni millilitri/litro di vino/mese.
La fermentazione malolattica non viene inibita, anzi sovente noto un anticipo rispetto al testimone non micro-ossigenato.
Sospendo il trattamento durante la fermentazione malolattica, per poi riprenderlo dopo il travaso, a dosi più basse.
L’effetto sul colore è anche molto interessante, anche se devo dire che in genere uso questa tecnica su vini che hanno comunque già un importante contenuto in poilfenoli e specialmente in antociani.
Il trattamento si esaurisce in pochi (2-3) mesi.
Un’altra via che stiamo da qualche anno percorrendo è quella dell’affinamento in legno.
22
Si tratta di una tecnica per ora mirata ad un prodotto “di nicchia” che nasce con un patrimonio polifenolico così importante da averci fatto nascere la curiosità sull’attitudine di questo vino ad un affinamento sinora appannaggio soprattutto di altri vini.
E’ una sperimentazione ancora molto giovane, per ora stiamo lavorando sulla falsariga di quanto esposto per Nebbiolo e Barbera, utilizzando però, di preferenza barriques non nuove,
cosicchè l’apporto di componenti aromatici sia molto contenuto.
Anche il tempo di permanenza è ridotto ma sotto questo aspetto è, per ora, opportuno affidarsi all’aspetto organolettico ed analitico in quanto, come detto, parliamo di una tecnica che sta dando buoni risultati ma non è ancora consolidata.”
3- BARTOLO MASCARELLO -PRODUTTORE IN BAROLO
“ Le botti che avevo prima le aveva acquistate mio padre 70 anni fa.
Erano di seconda mano. si usava così allora.
Erano di rovere nazionale , è ottimo, un legno duro consistente.
Ma non si trova più, durante l’ultima guerra le hanno abbattute, serviva a scaldarsi.
Molti allora usavano botti ex birra, io non le mai usate, spesso la doga era meno spessa del previsto.
Aggiungo che una volta il Barolo sopportava i difetti del legno, oggi non più. Per primo a Barolo ho avuto in offerta le barriques , le ho rifiutate subito, il trattamento del vino prima dell’immissione nel legno.-ovvero fermentazioni rapide non mi ha mai convinto
Il mio Barolo dopo anni è ancora vivo, in altri produttori lo trovo morto.
Recentemente ho acquistato 12 botti di rovere, da Garbellotto in Veneto.
Metà Slavonia, metà francese.
Le portelle erano in acciaio
Chi è capace oggi a mettere una portella in legno? (3)
Mica è facile
Mio padre usava cera di sego non mastice.
Non tirava mai forte lo portella e la chiusura non era ermetica, usciva qualche goccia di vino
Il primo giorno, poi il legno gonfiava, la chiusura era perfetta.
Il mio Barolo fermenta in cemento e al primo travaso va in botte, in primavera altro travaso in botte.
Resta nel legno tre anni o più.
23
Ho sempre travasato una volta all’anno, ma da un po’ di tempo vado cauto al terzo anno con i travasi, in particolare nelle annate discrete.
In certi casi ho trovato molto utile e sufficiente un travaso che effettuo una settimana prima dell’imbottigliamento.
Effettuo anche una piccola chiarifica con fogli di gelatina.
Ho mai fatto la stasatura , sono contrario a tale pratica, invece tolgo sempre -e con molta attenzione – il tartaro dalle doghe con un martelletto.
Le colmature solo manuali e una volta alla settimana
Devo dire che gi enologi sono esperti in tutto ma non nella cura delle botti
Se una botte prende muffa …addio
Dopo avere lavato con acqua fredda, quando è ancora un po’ umida brucio due dischetti zolfo –volume 25 hl
Dopo una settimana la apro e lascio 2 giorni per asciugare, richiudo e rimetto altri 2 dischetti
Lascio cosi.
Ma una volta al mese controllo presenza muffa.”
NOTE
1- Chi scrive, più volte, ha ammirato le diciassette imponenti e grandi botti di Fontanafredda, citate da numerosi giornali a partire dal 1885 e nelle quali hanno lavorato intere generazioni di cantinieri. Hanno resistito più di un secolo venendo demolite per” anzianità” solo nel 1990. Il rovere, ottenuto per segatura, era ormai pietrificato, ma colmatato solo per due -tre centimetri, su uno spessore di nove. Due fondi di dette botti con tutti gli accessori sono ancora visibili oggi a Fontanafredda. L’originale portella era a forma rotonda e appoggiava direttamente sulla doga essendo fissata ad essa con ben otto bulloni. La bellissima maniglia era in ottone intarsiato.
Inizialmente c’era solo una traversa di legno a tenere assieme i fondi piani, successivamente diventarono due per maggior sicurezza.Su ogni botte c’era una bellissima targhetta in ceramica Richar-Ginori con lo stemma Mirafiore. La ditta Marchetti di Bra produceva botti pregiate per importanti cantine tra cui Calissano e Fontanfredda
2 – Laboratorio analisi Fontanafredda- enot Roberto Desimone – 1991
3- –Ecco i consigli di Franco Drocco – capocantina dal 1974 a Fontanafredda
24
“E’ fondamentale misurare prima lo sportello per capire come e dove mettere il mastice.
Mi insegnò Giuseppe, un famoso cantiniere di Fontanafredda.
Ma i primi anni di lavoro non mi lasciavano mettere lo sportello, dovevo solo imparare.
Si spalma il mastice solo nella parte centrale della parete dello sportello, mai verso l’esterno.
Uno strato uniforme, un po’ più consistente nella parte inferiore della portella.
Poi viene messa all’interno e si inizia a tirare adagia,adagio la portella verso l’esterno.
Il mastice scorre , si scalda per attrito.
Occorre fermarsi a filo, allineati al legno della doga ,ne avanti, ne indietro.
Il mastice lentamente uscirà all’esterno, ma modo uniforme.
La portella è a posto “.