Il migliore.
Lo dicevano tutti senza discussioni, lo accettavano tutti senza esitazioni.
Un carisma formidabile. Nell’assaggio, nel lessico, nella professione.
Alla Martini e Rossi, al Consorzio dell’Asti, in una qualsiasi cantina.
Cinquanta anni di esperienza, di professionalità, di passione per il suo Asti, tra autoclavi, laboratori, mosti, uve, vendemmie, tra tecnica e passione.
Il suo Asti era il migliore, lui era il migliore.
Prologo. Serralunga d’Alba, 1973. «.Allora berremo l’Asti di Martini.».
«.Ci lascia proprio, Dottore?.».
Un camion sta scaricando vino Moscato. «.Sì, ho deciso, vado a lavorare a Pessione dal 1° gennaio.».
«.Non farà più il Barolo?.».
«.Creda, mi dispiace, è un vino che mi ha dato molte soddisfazioni.».
«.A Pessione avrà altri problemi: vermouth, china, spumanti.».
«.Sì, ma il reparto spumanti sarà l’ultimo dove andrò a mettere il naso.».
«.Lì lavora G.C. Ho sentito dire che è molto bravo.».
«.È il migliore.» dice il dottore allontanandosi.1.
Pontassieve, 1943-44. È rimasto più niente. Giorgio guarda sconsolato, impaurito, tra gente che piange, polvere che non lascia respirare, nell’aria l’odore è indescrivibile.
La pensione dove abitava, il negozio dove usava la tessera, scomparsi, distrutti, solo macerie. «.È stato il bombardamento più brutto per Pontassieve, ci saranno stati duecento aeroplani – dice una donna anziana – volevano distruggere il ponte sull’Arno, per impedire la ritirata ai tedeschi.».
Giorgio non parla, ha appena sentito dire che la cantina dove lavora è stata danneggiata gravemente. «.Non è la prima volta, succederà ancora – dice qualcuno – il paese è troppo importante, maledetta linea gotica.».
Giorgio sta quasi per piangere, la famiglia è lontana. Si è diplomato lo scorso luglio alla scuola enologica di Alba, qualche settimana dopo l’avevano chiamato a colloquio in una grande azienda a Pessione, vicino a Chieri.
Giorgio ha davanti a sé un signore distinto, elegante, parla con sicurezza: «.Andrà a Pontassieve, in Toscana, allo stabilimento Melini, un’antica ditta, rilevata dalla nostra proprietà, con lei ci sarà un altro enologo.». Il conte De Baggis saluta ancora Giorgio con un sorriso: «.Buon lavoro, ci terremo in contatto.».
Giorgio alla stazione di Alba saluta i familiari, afferra la valigia; sua madre
gliel’ha preparata con molta cura la sera prima, ha messo molte maglie; è il terzo inverno di guerra.
Con Giorgio viaggia l’enologo della Melini, il dottor Boffi; sino al 1938 lavorava ad Alba alla Calissano, poi per dissensi interni all’azienda andò a Pessione. Dieci ore di viaggio, interrotto, faticoso.
Sono a Firenze, da qualche minuto sono scesi, improvvisa la sirena. Giorgio e Boffi passano la notte in un rifugio, dormono per terra senza coperte.
Al mattino Giorgio cammina per la città. Desolazione, rabbia, palazzi abbattuti, quartieri distrutti.
Giorgio da alcuni mesi è al lavoro, Boffi gli insegna tante cose. La Melini acquista Chianti dai piccoli produttori; Giorgio fa molti viaggi nella campagna toscana, assaggia molti vini, parla con la gente, stringe qualche amicizia.
La prima volta era rimasto colpito dalle viti, da come erano tenute, non a filari come in Piemonte, vicino alla vite c’è un’altra pianta: normalmente un acero, in funzione di tutore. «Ti ricordi a scuola – gli dice un giorno Boffi – studiavi le viti maritate… eccole, il Sangiovese è quasi tutto così.».
Giorgio ha trovato una pensione vicino alla cantina; paga 1.000 lire al mese per vitto ed alloggio, ne prende 1.300 di stipendio, cerca di limitare le altre spese.
I vini che acquista li porta in cantina, fa i tagli opportuni, poi imbottiglia nei fiaschi. Il lavoro gli piace, ma la guerra fa paura; ieri ha visto una bomba inesplosa, era lunga tre metri. «.Prima o poi bombarderanno – dice la gente – quel ponte sull’Arno è troppo importante.».
Arrivano gli aeroplani, all’improvviso, solo pochi secondi di preallarme, due operai stanno caricando un camion, uno bestemmia sempre. La fabbrica è colpita, ma i due sono illesi.
«.Ti sei salvato nonostante le bestemmie.» dice l’altro operaio.
«.Guarda che hanno colpito dalle tue parti, non vedi quegli incendi?.».
«.Cristo, scappo subito. Vedo di salvare i soldi dall’incendio.».
Giorgio è solo, in un palazzo con venti alloggi, le famiglie sono tutte sfollate. Seduto sul freddo pavimento guarda da una finestra senza vetri, fuori solo colonne tedesche in ritirata, abbandonano la linea gotica, sui camions qualcuno canta. È quasi sera, al buio Giorgio prende una pagnotta acquistata con la tessera il giorno prima e un pezzo di formaggio, non capisce cosa c’è scritto sulla carta. Glielo ha buttato velocemente un tedesco in fuga.
Alla messa di Natale, al mattino, c’era quasi nessuno.
Giorgio e Boffi sono partiti, non potevano più lavorare a Pontassieve, la fabbrica era praticamente distrutta, il lavoro fermo. Partono in macchina su una Topolino scassata, con loro pochissime cose. Arrivano a Reggio Emilia in tempo per vedere un altro bombardamento, al primo posto di blocco vengono arrestati.
«.Chi siete? Dove andate con la macchina?.» chiede il capitano tedesco.
«.Su, a Torino – dice Boffi – siamo enologi, rientriamo alla ditta.».
«.Conoscete il Chianti?.».
«.Eccome – fa Boffi – lavoriamo alla Melini.».
«.L’ho già bevuto.» fa il capitano.
«.Se posso – dice Boffi – Ne ho un paio di fiaschi nel baule della Topolino.».
Il capitano ha già bevuto tre bicchieri, Boffi e Giorgio sono sulla Topolino. «.Solo strade secondarie – dice Boffi – non so se arriveremo a Pessione.».
«Vi manderemo sul Po, a fermare gli americani, cosa credete? Che mestiere fate? Enologi? Io non bevo. Lei – fa rivolto a Giorgio – è di leva, perché non è in divisa?.».
Boffi è terrorizzato, li hanno presi il mattino alla periferia di Alessandria, passava sul sentiero la squadra della guardia nazionale repubblicana. Hanno sequestrato la macchina e accompagnato i due al presidio. L’ufficiale repubblicano alza la voce, lo sguardo è duro, sprezzante.
Giorgio è arrivato a casa, dopo cinque giorni di viaggio, al bivio del Rondò di Alba saluta Boffi che cerca di arrivare a Pessione. Sono riusciti a riavere anche la Topolino.
«.La mia cascina è qua, a poche centinaia di metri – dice Giorgio. – Vieni su quando riesci, ciao.». Suo padre lo riconosce appena, poi tutti intorno, chi lo bacia, chi fa mille domande.
Giorgio è già salito in camera da letto. Dorme diciassette ore.
Pessione, 1945. È arrivata la brina, l’aria fredda non dà tregua. Giorgio pedala sulla vecchia bicicletta, è quasi arrivato a Canale. Sua madre prima di partire ha piegato un foglio di giornale, glielo ha messo sotto la maglia, poi le solite raccomandazioni e una borsa con qualcosa dentro.
Giorgio sale a Montà a piedi, la salita è troppo ripida, la bici è vecchia senza cambio, pedalerà per altre due ore prima di arrivare a Pessione. Da qualche mese viaggia così, va al lavoro al lunedì e rientra a casa il venerdì, dorme su una brandina; è contento lo stesso; il giorno in cui è finita la guerra gli operai hanno cantato per otto ore.
In fabbrica c’è poco lavoro.
Giorgio gira dappertutto. Il primo operaio che Giorgio conosce è Giovanni Gatia, è anziano, ha iniziato a lavorare a 14 anni. A Giorgio fa assaggiare subito la China e il Vermouth. Beve anche lui.
A Giovanni il soprannome glielo hanno dato le operaie quando era giovane.
A quattordici anni faceva cadere i tappi del Vermouth con un’asta nella macchina. «.Gatia, Gatia – dicevano tutte – sbrigati.». Il soprannome gli è rimasto.
Gatia continua ad accompagnare Giorgio nei reparti, passa di nuovo dove fanno la China, va giù un altro bicchiere. Giorgio lo guarda.
Quanti operai ci sono in quell’estate del ’45? Tantissimi; tra uomini e donne almeno 500, molti vanno dietro allo stabilimento a coltivare l’orto.
C’è anche Paulin ’d Luisa, bottaio, beve alcool puro e non ci vede. Porta gli occhiali senza lenti per guidare la moto. Un tipo simpatico. Abita a Liburna, vicino a Pessione, ed è il tipo giusto per le burle. Una sera arrivano gli amici a chiamarlo: «.Vieni, una mucca sta per partorire.». Arrivano alla cascina, fuori dalle stalle in due tirano una corda. «.Tira, Paulin, tira.». Paulin tira come un matto per cinque minuti, gli altri due hanno smesso, ridono. La corda è attaccata ad una pila di cemento, Paulin continua a tirare.
Si racconta anche che quando il carretto va alla stazione ferroviaria con le damigiane del Vermouth, sovente si fermi, i quattro operai incominciano a bere, qualcuno passa, beve anche lui. Beve anche Paulin quando va a spigolare il grano, la ditta gli passa una bottiglia al giorno e lui la conserva per la sera.
Molti invece bevono per strada in bici prima di arrivare a casa. Nei reparti tutti bevono, anche le donne.
Giorgio lavora in uno stanzino, li c’è tutto: scrivania, laboratorio, libri, quaderni. Non ci sono apparecchi per analisi, solo il “Salleron” per fare l’alcool, per il resto niente.
Un giorno Giorgio si decide, chiede a Boffi: «.Ma scusa, non analizziamo il vino?.».
«.Qui vino ne girava poco, si facevano liquori ed il Vermouth sino al 1933 si faceva con l’acqua e l’alcool.».
Pessione 1946. «.Lei sarà il responsabile per gli spumanti, si dia da fare.». Giorgio in piedi ascolta.
Il conte De Baggis lo ha convocato a Torino in mattinata; negli uffici di corso Vittorio Emanuele parla per mezz’ora. Giorgio è un po’ preoccupato, c’è tutto da fare.
Ci sono le vecchie autoclavi originali Charmat del 1930. Sono sette recipienti in ghisa, verticali, da 22 ettolitri caduno. Internamente sono smaltate di rosso, all’esterno invece sono rivestite in sughero tenuto insieme da un’apposita rete ricoperta da uno spesso strato di vernice bianco-grigia.
Sono sollevate da terra con appositi sostegni in modo da permettere il passaggio di uno spumantista, sul fondo c’è uno sportello passo d’uomo imbullonato. Le pareti delle autoclavi sono doppie per il passaggio della salamoia refrigerante a base di cloruro di sodio; in una sola autoclave invece si può riscaldare il vino con passaggio di acqua calda.
Giorgio si mette al lavoro. Cerca dei libri sulla tecnica degli spumanti. Da Parigi gli arrivano due testi: Vin de Champagne dei professori Pacottes e Guittonne, l’altro proviene dalla scuola di Montpellier, è un testo di enologia del professor Jules Ventre.
Un altro problema per Giorgio è quello della stabilità dell’Asti Spumante.
È difficile trovare soluzioni. Giorgio cerca delle candele porose per filtrare il prodotto. Le troverà in Belgio, alla Paekefaert; ma soprattutto impoverisce il vino moscato di sostanze azotate secondo la tecnica del prof. Mensio, adottata prima della guerra a Canelli.
La cantina si attrezza come può.
Arrivano altre autoclavi, le Chaussupied francesi e poi le Padovan italiane, i primi filtri a cartoni, una riempitrice isobarica a sei becchi, poco alla volta lo stabilimento riprende a produrre.
Giorgio andrà anche in Francia per trovare i fermenti migliori da utilizzare in autoclave; a Epernay gli consigliano un ceppo particolare, lo hanno selezionato nei vigneti di Pinot dei comuni di Cremant e Verzenay. Userà sempre quello, con tante precauzioni.
Giorgio è riuscito a trovare una colla particolare, proviene dalla Russia. Si chiama Salianski, è ottenuta dalla vescica natatoria dello storione del Volga. Ne bastano pochi grammi per quintale di vino, dopo la coperta il Moscato è limpidissimo.
Montechiaro d’Asti, 1947. È tardi, ma Giorgio è venuto lo stesso, vuole ancora controllare la fermentazione del Moscato; quest’anno l’uva è bellissima, la gradazione zuccherina molto alta. Nelle vigne c’è pochissima uva, la siccità ha dominato l’estate; i prezzi sono alle stelle.
La scorsa settimana con il mediatore ha visitato molti vigneti. Conosce bene la zona, gira dappertutto nelle cascine, nelle vigne, parla con i contadini, gli raccontano di belle esposizioni, di viti molto vecchie, di zolfo e verderame, di gradi e di profumi. Giorgio ascolta con attenzione.
Acquista uva a Moncucco, a Calosso, a San Marzano, a Sant’Antonio, a Castiglione Tinella. La zona da Moncucco a Santo Stefano è la più bella: terre ripide, forti, gente laboriosa e attenta.
Con i contadini si è subito inteso, cerca solo dell’uva di alta qualità che verrà pagata il giusto prezzo. Giorgio pensa solo al risultato che otterrà con la vinificazione.
Entra in cantina, è sistemata in una vecchia distilleria. Stanno filtrando con i sacchi olandesi. Qualcuno è già esaurito, scendono solo più gocce. Ci sono almeno 300 sacchi attaccati al soffitto, ormai gonfi e viscidi, dal caratteristico color dorato scuro.
Un cortile, vicino a delle navazze in legno piene di acqua calda e soda, alcune donne sono intente a lavare le tele sporche. Chine con le mani nell’acqua risciacquano più volte le tele di cotone rivoltandole spesso. Durante la notte sganceranno i sacchi penzolanti per sostituirli con quelli lavati. Così tutti i giorni.
«.Fa ancora dieci baumé – dice un cantiniere – però fermenta un po’, la temperatura si sta alzando.».
«.Che Moscato! – dice Giorgio – senta il profumo.».
«.Certo – fa il cantiniere – è un grande moscato, dovranno filtrarlo più volte, perché è ben grasso.».
«.Prima che riesca a consumare lo zucchero ci vorrà molto tempo – dice Giorgio – continuate pure a filtrare, poi lo mettiamo in piccoli fusti.».
Giorgio osserva per un attimo le gocce e i fili di mosto che scendono, il rumore è appena percettibile.
Pessione 1959. Il conte De Baggis è a Pessione, ha chiamato Giorgio. «.Lei abita ad Alba, come viaggia?.».
«.Dopo la guerra sono venuto in bicicletta per un certo periodo, il ponte sul Tanaro era distrutto, la ferrovia era ferma; poi in treno e in seguito ho acquistato una Cinquecento.».
Alla guida della nuova Appia Lancia Giorgio sta arrivando a Santo Stefano Belbo. Da pochi giorni hanno aperto il nuovo centro di vinificazione, è iniziata la vendemmia. È più ampio e moderno di quello di Montechiaro, dove per anni si è fatto il Moscato in piccoli fusti.
Sono già in funzione le nuove presse Vaslin francesi, vanno bene, ma Giorgio ricorda con nostalgia i vecchi torchi Gambino in legno verticale; il lento, continuo rumore dei saltarelli in ferro, l’odore della vinaccia rivoltata, la limpidezza del mosto ottenuto. Giorgio pensa un attimo allo stile del conte De Baggis, un gentiluomo che conosceva quattro lingue e soprattutto non aveva bisogno di alzare la voce. Suo padre, molti anni prima ideò il vermouth dry.
A Pessione sono arrivate le nuove autoclavi Padovan da 200 ettolitri.
Giorgio effettua ancora la presa di spuma in piccoli recipienti, da sempre è convinto che in tal modo si ottenga un prodotto migliore. L’altro giorno ne ha avuto conferma al consorzio dell’Asti spumante. Ha partecipato ad una commissione d’assaggio, l’ultimo campione era certamente il migliore, più fresco e profumato. Erano anonimi, ma Giorgio lo ha riconosciuto.
Una settimana dopo gli hanno consegnato una lettera. «.Eccellente.» è il giudizio.
Pessione, 1962. «.Quasi tutti lo usano.». Il direttore del Ministero Agricoltura e Foreste è categorico: chiede a Giorgio se è disposto a fare della sperimentazione con un nuovo additivo non ancora permesso, di fatto usato da quasi tutte le cantine; serve a togliere il ferro ed altri metalli dai vini. Si chiama Ferrocianuro di Potassio, in Francia è legale dal 1955.
Giorgio fa anche delle prove con un nuovo tipo di tappo. Un industriale di Torino, un certo Bernardi, inizia a produrre miscele di agglomerato di sughero unite da una colla speciale e con delle rondelle in testa, per trovare un tappo per spumante che costi poco e garantisca tenuta nel tempo. Quante grane con il diametro dell’imboccatura delle bottiglie, con il pistone del tappatore o per il lubrificante adatto.
Pessione, 1987. Sono andati tutti a salutarlo. Giorgio lascia la fabbrica: da domani è in pensione.
Quarantacinque anni di lavoro: i ricordi passano veloci, mentre stringe tante mani e sorride a tutti. C’è il conte De Baggis, ha quasi novant’anni, lo ha assunto, lo ha aiutato, ma soprattutto stimato; ci sono i colleghi enologi, giovani ed anziani che Giorgio ha fatto assumere, poi gli operai, i meccanici, gli spumantisti.
In un angolo ci sono i vecchi, quelli che Giorgio ha conosciuto i primi mesi di lavoro finita la guerra. È la nostalgia di un lavoro che gli piaceva, di un risultato incerto, sempre costruito momento per momento e verificato con soddisfazione nell’apertura della bottiglia, nei profumi nel bicchiere, nei commenti sinceri di un amico. E la gratitudine per la gente del vino. Tanta.
Pio, che faceva andare Giorgio in cantina e gli chiedeva di assaggiare tutte le botti di Barolo. «.Questa è eccezionale. È di Serralunga.» diceva Pio allargando le braccia.
Contratto, uno dei più grandi palati che Giorgio abbia conosciuto, fermo e sicuro nei giudizi sui vini in tante degustazioni al consorzio dell’Asti spumante. Il prof. Garino Canina, appassionato ed instancabile ricercatore, fonte di utili consigli per tanti enologi. Il professor Teodoro Ferraris, suo insegnante alla scuola enologica di Alba: «.uno dei più grandi fito-patologi del mondo.».
Giorgio sta per uscire dalla fabbrica. C’è anche un po’ di amarezza. Gli ultimi anni non sono stati sempre facili.
Giorgio non ha mai capito perché con la normativa regionale il Moscato di Moncucco venisse pagato come quello di altre zone di minor pregio, non ha mai capito cosa stesse succedendo in molti vigneti: potature da brivido, concimazioni forzate, produzioni eccessive, oppure nelle cantine con certe tecnologie esasperate.
Le piccole autoclavi, ove per quasi mezzo secolo ha condotto tante fermentazioni del suo Asti spumante, gli dicono ancora tante cose.
Sul portone ci sono i vecchi operai. Giorgio li riconosce, chiede di Giovanni Gatia che ha conosciuto il primo giorno di lavoro. «.È morto lo scorso anno.» gli dicono.
1 Il colloquio è autentico, ed è avvenuto presso le cantine di Fontanafredda nell’ottobre del 1973 tra chi scrive ed il dottor Giuseppe Crestodina, allora direttore tecnico dell’azienda.
Dal 1974 il dottor Crestodina assumerà mansioni direttive allo Stabilimento Martini e Rossi di Pessione e nel 1985 la presidenza del Consorzio dell’Asti Spumante. Morirà in un incidente stradale nell’estate del 1989.