In data 12 gennaio 2012 ricevevo incarico, da parte del Direttore del Consorzio Tutela Asti, enol. Giorgio Bosticco, di elaborare uno studio, a carattere storico-culturale, sui vigneti a forte pendenza, i cosiddetti “sorì” della zona docg del Moscato d’Asti. L’art. 9 dell’Accordo Interprofessionale Regionale sull’uva moscato 2011, prevede un’apposita “Commissione qualità” per valutare i vari aspetti tecnici ed economici in merito ai vigneti sopracitati.
Le componenti eccellenti del territorio del Moscato d’Asti
Vediamo per prima cosa di definire il concetto generale di “Territorio”.
Una parola, da molti anni, pronunciata in misura rilevante a proposito della qualità del vino.
In tutto il mondo e da tutti i consumatori. Con i poliedrici e complessi significati. Ma con un comune denominatore: distinguere, meglio evidenziare i caratteri qualitativi intrensechi del vino.
Molti preferiscono usare, per completezza lessicale, il termine “terroir”.
In vero si tratta di un termine antichissimo. I romani indicavano in “Locus” un luogo prediletto per coltivare la vite.
Scrive Luigi Veronelli nell’introduzione a un classico testo di viticoltura “Terroir -Zonazione -Viticoltura “a cura di Mario Fregoni – Dany Scuster e Andrea Paoeletti”: “Per la terra, con la terra, nella terra “: occorre conoscerla e amarla in tutto e per tutto questa nostra terra, anche con la vanga e la zappa…Perché ha sempre dispensato e continuerà a dispensare anche benessere. Pertanto la terra va soprattutto rispettata”.
Numerose le definizioni di terroir:
1 – Globale: ovvero un intreccio comprensivo di suolo-clima-vitigni autoctoni-pratiche enologiche- paesaggio-storia e tradizioni.
2 –Geofisico: ovvero limitato a suolo e clima.
Un terrior vocato è sempre una ricchezza per il mondo della vite e del vino e per tutti i soggetti della complessa filiera che vi operano. Pertanto è un preciso dovere collettivo la valorizzazione e preservazione del terroir sotto il profilo ambientale, economico e giuridico.
Prendiamo in esame il territorio docg del Moscato d’Asti. Una vasta superficie: tre province (At – Cn -Al) e 52 comuni, quasi 10000 ettari.
Un territorio vitivinicolo ad altissima vocazione, caratterizzato da un paesaggio, in cui il vigneto domina incontrastato. Il vasto territorio inizia dalle irte colline della Langa Cuneese, per continuare ai dolci declivi del Monferrato, terminando ai primi contrafforti della pianura Alessandrina. Pur essendo presenti molti microclimi correlati alle diverse altitudini presenti nell’intera zona, il clima si può considerare temperato-freddo. Adatto, quindi, ai vini fruttato-aromatici, categoria alla quale appartengono quelli derivati dall’uva moscato. Nella zona d’origine dell’Asti risiedono circa 7000 famiglie di viticoltori. Svolgono un lavoro poliedrico e prezioso, spesso difficile e faticoso, che occupa tutte le stagioni dell’anno.
Il connubio viticoltore-vigneto evidenzia in maniera univoca un’altra valenza dei vini prodotti. Si tratta delle famose tre T: “Terra, Tradizioni, Territorio”. Certamente tradizioni e usanze del territorio di origine, insieme ai ricordi e alla memoria dei suoi protagonisti, sono un valore aggiunto per qualunque vino. Il Moscato d’Asti a questo proposito non teme confronti: le sue tradizioni si perdono nel tempo e nella memoria collettiva degli abitanti del suo territorio.
Fatte queste necessarie premesse, lo studio sui cosiddetti “sorì”, o “vigne a forte pendenza” paragonabili per molti aspetti ai “vigneti storici della zona del Moscato d’Asti, sarà effettuato con precisi metodi:
1 – Valutazione fonti orali e documentarie esistenti.
2 – Esperienze di colleghi, imprenditori, mediatori e personaggi vari del mondo del Moscato.
3 – Esperienza diretta correlata a oltre 40 vendemmie di uva Moscato.
4 – Collaborazioni e contatti di vario genere con enti, istituzioni, media e altro del “Mondo dell’Asti”.
I sorì del Moscato d’Asti
Il termine sorì nella tradizione rurale, in genere è riferito ad una porzione di terreno a forte pendenza, si può ipotizzare oltre il 45%.
Sono ben presenti nella zona docg del Moscato d’Asti.
Un recente studio del Centro Sperimentale Informatico (CSI) Regione Piemonte indica in 336 ettari la superficie totale dei vigneti con pendenza superiore al 50% e ben 1084 quelli con pendenza oltre il 40%. La provincia più interessata è quella di Cuneo con 211 ettari, seguono Asti con 112 ha e Alessandria con 14 ettari.
I paesi interessati sono molti, in particolare nelle valli Belbo e Bormida.
Limitandoci alle pendenze superiori al 50% citiamo Santo Stefano Belbo con 74 ha, Cossano Belbo con 41 ha, Camo con 21 ha, Vesime con 16 ha, Bistagno con 5 ha e Loazzolo con 18 ha.
Spesso, in presenza di pendenze molto elevate, il viticoltore è costretto a terrazzare la superficie coltivabile. Da molti secoli sono famosi, in tutta Europa i terrazzamenti di aree vitate: citiamo Mosella, Roussillon, Valtellina, Cinqueterre e Costa d’Amalfi.
Osservando i vigneti della zona docg del moscato d‘Asti, percorrendo la strada che da Santo Stefano Belbo porta a Castino, si possono osservare molti vigneti terrazzati.
Si ammirano per la loro straordinaria bellezza, ricca di ordine, geometria e precisione: quasi un monumento costruito, ben inteso, per la sua utilità.
Ingegno e fatica per strappare terra a colline molto scoscese e difficili, volontà e determinazione per lavorare quelle vigne per renderle produttive. Un’interazione perfetta tra l’uomo e l’ambiente.
Non a caso due aree terrazzate viticole (Cinque Terre e Costa d’Amalfi) sono state definite dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
In certi casi i viticoltori optano per un terrazzamento parziale fatto di scalini tra i filari, alti anche 40 -45 cm. Non sono previste pietre, ma viene di fatto sagomata la terra.
I filari pertanto sono in piano o quasi, le capezzagne vanno ovviamente adeguate.
In molti casi, al fondo di questi sorì, sono sistemati, da alcuni anni, i “muretti di legno”.
Costruiti con il legno delle traversine ferroviarie presentano assi sistemate parallele e trasversali ai filari. Alcune entrano per due metri nella terra, per maggiore stabilità.
Sul piano estetico, i muretti di legno, sono molto belli.
Ma altre due valenze occorre aggiungere per meglio comprendere il valore di un cosiddetto sorì.
1-La felice esposizione ai raggi solari. Potremmo pertanto avere un sorì del mattino, del pomeriggio e della sera. Secondo l’esposizione prevalente a est, sud, ovest). In caso di vigneto terrazzato le pietre consentono di immagazzinare calore di giorno per poi cederlo pian piano nelle ore notturne, aiutando in tal modo la maturazione delle uve.
Il citato studio del CSI rileva che la maggior parte dei vigneti del moscato è esposta a sud.
2 -L’altitudine. Per quanto riguarda la zona del Moscato d’Asti varia da 701 m. slm della Langa cuneese ai 127 m. slm per la provincia di Alessandria.
La media comunque si aggira tra i 250-350 m. slm per circa il 70% dei vigneti.
Come già detto la maggior parte dei sorì si trovano in provincia di Cuneo. In molti casi nelle zone con maggior altitudine della valle Belbo.
Vediamo ora alcuni aspetti storici
La coltivazione del moscato nella zona docg è antichissima.
Il vitigno arrivò sulle coste liguri intorno al sec V a.c. grazie a navigatori greci, da qui si diffuse verso il nord. Un’altra ipotesi lo vuole arrivato dalla Spagna, ove esisteva grazie ai commerci e migrazioni delle popolazioni arabe.
Comunque la sua culla è con molta probabilità il Medioriente.
In epoca romana risulta conosciuto con un nome di apiane.
Ovvero un’uva vistata dalle api (in vero da vari insetti) e citata da Plinio.
Nei documenti è citato nel sec. XVI a Santo Stefano Belbo e Canelli. Con il nome latino di Muscatellum.
In quell’epoca è largamente coltivato in Piemonte.
La prima descrizione della zona attuale del Moscato è di Armando Strucchi: “Enologia Piemontese”-1904. Descrive la zona d’origine del Moscato evidenziando, in modo netto, due grandi sottozone: Canelli e Strevi. La mappa nelle linee generali è comunque simile all’attuale zona docg delimitata ufficialmente nel 1932.
I viticoltori che nell’antichità misero a dimora viti di moscato occuparono anche terre in posizione molto ripide e non facili da lavorare, pur di avere un minimo reddito garantito. Oltretutto il moscato si adattava meglio di altri vitigni esempio barbera e dolcetto. In pratica furono impiantate vigne di moscato negli attuali sorì.
A partire dalla fine del sec XIX con l’affermarsi dell’industria spumantistica a Canelli e dintorni, la coltivazione del moscato si estende gradualmente a tutto il territorio compreso nella zona attuale.
La viticoltura nei sorì
Quante definizioni? “Al limite del possibile, “Sudore e fatica”, “Tanto lavoro-Scarso reddito“. “Eroica” senza retorica si può affermare. Semplici, immediate, comprensibili le motivazioni.
Unicamente la grande fatica nel compiere operazioni che altrove si possano meccanizzare.
E’ la forte pendenza del terreno il fattore condizionante.
Sempre il citato studio del CSI precisa che, per prevenire il ribaltamento trasversale di trattori senza zavorre, si considerano pendenze massime pari al 25-30% per i trattori a due ruote motrici, pari a 30-35% per i trattori a quattro ruote motrici e pari al 50-55% per i trattori a cingoli.
Dove non possono arrivare trattori e atomizzatori, non resta che l’uomo con la sua determinazione e professionalità.
Nei sorì numerose operazioni culturali come la cimatura, i trattamenti antiparassitari, la trinciatura dell’erba, stessa raccolta dell’uva o dei sarmenti di potatura, presentano fortissimi limiti alla meccanizzazione. Con fatica e aumento dei costi pazzeschi. Un calcolo indicativo indica nelle ore di manodopera necessarie alla loro conduzione parametri “da tre a dieci volte superiori a quelle della pianura o della bassa collina”.
In vero oggi l’industria delle macchine agricole mette a disposizione dei viticoltori attrezzi e impianti adatti e versatili per lavorazioni in forte pendenza. In particolare mezzi cingolati.
Ma è chiaro che hanno dei costi elevati, quindi adatti ad aziende agricole di grandi dimensioni.
Non certo presenti tra i sorì del moscato, oggi estesi per pochi ettari, in molti casi anche per poche giornate piemontesi.
Difficilmente un piccolo viticoltore potrebbe acquistare e ammortizzare dette macchine.
Inoltre il vigneto dei sorì in genere è stato messo a dimora molti anni fa, pertanto ancora tradizionale, con un sesto di impianto con filari non troppo larghi e viti vicine sull’interfilare.
Ma è un problema generale in tutta la zona docg del moscato.
Il CSI indica un continuo, inarrestabile problema di invecchiamento del vigneto.
Ecco i dati: Il 55% dei vigneti ha più di 30 anni. Il 22% dei vigneti ha più di 40 anni
Inoltre nei sorì, spesso, il vigneto non si rinnova in toto, preferendo continue sostituzioni di singole viti.
Anche perché andrebbe rinnovato con precisi criteri: i filari pendenti verso la capezzagna, un solco a metà vigneto che sostituisce il filare e rende minori i rischi di erosione temporalesca.
Anche il drenaggio andrà curato in modo particolare. I sistemi di allontanamento delle acque dovranno limitare al massimo la naturale velocità delle medesime. Ovviamente aumentano i costi.
Per questi motivi il rinnovo dei vigneti nei sorì si effettua di meno che nel passato.
Ma è un fenomeno generalizzato in tutta la zona docg.
Il tasso di rinnovo vigneti, considerando 40 anni di vita e per una superficie vitata di 10000 ha, dovrebbe essere di 250 ha/anno, ma i nuovi impianti degli ultimi anni, 2009-11, sono compresi tra 50 e 90 ha/anno.
Insomma i vigneti del moscato invecchiano troppo.
Aumento sensibile ore lavorative
La stessa conduzione familiare, le ridotte dimensioni dei vigneti, il frazionamento delle proprietà sono fattori oggettivi che portano ad una conduzione particolare dei sorì, diversa dal resto dei vigneti a pendenza normale. Un confronto tra alcune lavorazioni evidenzia interessanti risultati:
Nei sorì la cimatura si effettua manualmente con appositi attrezzi a disco rotante.
Comporta molta fatica e tempi lunghi.
Per sei ore giornaliere massime il giorno, si possono cimare 2 giornate di vigna.
Con un trattore e una moderna cimatrice per la stessa superficie in vigneti normali si impiegano 2 ore.
Per eliminare l’erba dal filare, con una trincia trainata da un trattore, effettuando due passaggi, si impiega un’ora per giornata. Con un decespugliatore manuale se ne impiegano quattro.
Vediamo ora i trattamenti antiparassitari. Nei sorì in genere si usano le gomme.
Si riesce a trattare una giornata in un’ora, ma con due operatori. Nei vigneti normali utilizzando un atomizzatore un solo addetto tratta un ettaro in un’ora.
In tutti i casi l’aumento di manodopera è molto sensibile: da 2 a 6 volte.
Qualche viticoltore posiziona un “cannone” sulla capezzagna dei sorì. Se la superficie è piccola si può optare per un atomizzatore a spalla.
In ogni caso rimane un forte aumento di mano d’opera.
Medesimo discorso per la raccolta dell’uva: spesso nei sorì molto ripidi, ogni sei-otto filari si lascia una capezzagna parallela ai medesimi che serve per portare via le ceste di uva e i sarmenti.
Ecco, in sintesi, gli elementi specifici che contraddistinguono la viticoltura dei sorì: scarsa meccanizzazione, prevalenza di lavori manuali, crescita del numero di ore lavorative, rese in uva non elevate, qualità del prodotto eccellente. Aggiungiamo che se per un ettaro di vigneto normale, un addetto, disponendo di adeguati macchinari è impegnato mediamente per 350-400 ore annue, per un classico sorì, con pendenza oltre il 45%, le ore medie lavorative annue diventano almeno 1000.
La fatica nei sorì
“Si dovrebbe avere una gamba più lunga dell’altra“. Con questa battuta, un viticoltore di Madonna di Como in Alba liquida la sistemazione a ritocchino di qualche vigneto nei sori.
In effetti, rimanere per ore in equilibrio in terreni ripidi crea un sensibile affaticamento ai muscoli delle gambe.
Ma ben altre fatiche e disagi affronta l’appassionato viticoltore.
Tirare le gomme per il verderame è faticoso; se si usa il disco cimatore manuale, solamente due ore dall’inizio dei lavori, le braccia iniziano a fare male. L’atomizzatore a spalla è pesante e vibra in continuo.
Poi la forte pendenza rende difficile tutto.
Le ceste piene di uva pesano 30-35 kg; nei sorì devi trasportarle in spalla o farle scivolare.
Si fatica anche per sposare i sarmenti.
Se poi il sori ha un’esposizione favolosa (sud -sud ovest), se la pendenza va oltre il 60 per cento si è al massimo. Sicuramente si produrrà un eccellente moscato.
Il sole non da tregua ai grappoli
Anche a chi vi lavora in piena estate.
La qualità del prodotto
Un dato da tutti accettato: nei sorì nasce la migliore qualità dell’uva moscato. Molti i motivi.
Per la massima insolazione dei grappoli, grazie alle somme termiche annuali elevate.
Di fatto i terreni ripidi sono quelli in grado di assorbire in maniera eccellente i raggi del sole.
Aggiungiamo l’altitudine del sorì, spesso oltre 400 metri slm.
Che porta un clima più temperato, adatto quindi alla coltivazione di vitigni a contenuto aromatico.
Ecco i precisi “fattori di qualità dei sorì”. Garantiscono produzione di uva con alta ricchezza zuccherina, migliori quadri aromatici sul piano quantitativo e soprattutto qualitativo.
Aggiungiamo migliore sanità dell’uva e una composizione della polpa dell’acino maggiormente equilibrata.
Spesso proprio nei sorì si trovano i cosiddetti “rapet” del moscato.
Provengono da viti vecchie. Come dice il termine si tratta di piccoli grappoli di uva moscato, Gli acini minuti presentano sempre un bel color giallo-dorato, sempre spargoli. Ovviamente pesano poco. Ma la dolcezza e l’aromaticità sono ineguagliabili.
Forse erano i grappoli prodotti dai “raisuti di moscatello” spediti da “Strevi al duca di Mantova”, come testimonia un documento del 1589.
Il mancato reddito
A fronte di enormi difficoltà e maggior fatica, il viticoltore che conduce i sorì non riesce ad ottenere un reddito proporzionato alla oggettiva qualità dell’uva prodotta.
Da un lato i maggiori costi di conduzione, dall’altro la minor quantità d’uva prodotta riducono fortemente il ricavo netto del vigneto.
Il problema è in massima parte correlato al prezzo dell’uva conferita. Non viene assolutamente riconosciuta dall’acquirente la qualità intrinseca.
Infatti, nell’accordo interprefessionale regionale il prezzo non è differenziato, rispetto ad altri viticoltori che producono in condizioni migliori e con costi ben diversi.
Di fatto il reddito ricavato dalla conduzione dei sorì del moscato è troppo basso, spesso non copre neppure le spese di conduzione del vigneto stesso.
Problemi attuali dei sorì
A queste problematiche alcune famiglie di viticoltori che conducono sorì rispondono in maniera articolata diversificando l’attività, cercando quindi di dare un valore aggiunto alla materia prima prodotta.
Due le attività scelte:
-Trasformare l’uva in vino.
-Avviare un agriturismo.
Ma chiaramente si affrontano altri rischi imprenditoriali e la soluzione riguarda comunque un numero limitato di viticoltori.
Occorre trovare altre risposte a carattere generale, soprattutto maggiormente garantiste.
Anche per un altro motivo. L’età dei viticoltori rimasti a coltivare le vigne.
I dati regionali parlano chiaro: Solo il 5% delle aziende viticole è oggi condotta da imprenditori agricoli con meno di 40 anni di età e sono 7337 le imprese il cui titolare ha superato i 65 anni.
Ma torniamo ai sorì del moscato. Augurando a tutti gli anziani viticoltori lunga vita, anche lavorativa, la domanda viene spontanea. Chi rimarrà tra dieci anni a coltivare quei ripidi vigneti? Emerge un altro fenomeno, che riguarda, in particolare i sorì con una certa dimensione e per i lavori a carattere stagionale: la presenza di manodopera di origine straniera. Ma moldavi, rumeni e marocchini vanno pagati e messi in regola. Con costi diretti e indiretti complessivamente elevati che solo un reddito adeguato al viticoltore può sostenere. D’altronde senza il loro apporto di mano d’opera, quante vigne resterebbero semiabbandonate?
Perdita dei sorì: danni molteplici
Di fatto ogni anno sono dimessi, quindi abbandonati molti sorì. Al recente Vinitaly, la Regione Piemonte e il Csi, con i ricercatori Mario Perosino e Filomena Nardacchione, in un apposito convegno hanno presentato dati inquietanti riguardo all’attuale superficie vitata piemontese.
Se nel 1961 le vigne occupavano una superficie di 131 mila ha, mezzo secolo dopo ne sono rimasti 46 mila ha (dati tratti dai censimenti generali dell’Agricoltura).
“Vigne “ritirate” di oltre i due terzi, svaniti 85 cinquemila ettari, l’equivalente di oltre centomila campi da calcio” è stato evidenziato.
Si può aggiungere che si tratta di un fenomeno generalizzato, aggiungo a livello europeo, ma occorre precisare che in alcuni comuni della zona del Moscato è troppo rilevante.
Correlato comunque alla forte richiesta dei diritti di impianto, stante il blocco in vigore.
Occorre evidentemente spiantare la vigna, con gravissimi problemi sociali ed economici.
Una vigna abbandonata è una grave perdita per la socialità della borgata, del paese e del territorio.
Da secoli la presenza dell’uomo su quei sorì ha garantito l’esistenza di comunità rurali che hanno vissuto, lavorato sofferto e gioito. In tutti i momenti belli o brutti della loro esistenza, diventando parte integrante del connubio paesaggio-vigneto. Se non resta nessuno a lavorare quelle zolle, se nessuno rompe gli strati di tufo bianco-azzurrino, si perdono forme di vita e di socialità ancestrale, con tutte le conseguenze culturali e socioeconomiche. Per non parlare di terreni lasciati a gerbido, non più coltivati, quindi abbandonati a se stessi. A parte il grave degrado del paesaggio e ai danni per la possibile diffusione di pericolose malattie per la vite, flavescenza dorata in primis, occorre considerare con attenzione i gravissimi dissesti idrogeologici cui, causa calamità naturali, si esporrebbero quei terreni abbandonati a se stessi.
Con gli enormi rischi e le gravi conseguenze sociali ed economiche che riguardano tutta la collettività e che, purtoppo, ben conosciamo.
Conclusioni
Una diversa valutazione sul ruolo e sull’importanza dei sorì, correlata alla necessaria presenza dei viticoltori e alla materia prima fornita, deve necessariamente portare ad una diversificazione del prezzo dell’uva moscato prodotta. E’ quanto auspicato da molte parti; risponde anche alle richieste effettuate in sede regionale da alcune componenti della filiera dell’Asti e Moscato d’Asti.
Con vantaggi innegabili per tutta la collettività. D’altronde la tutela generale del territorio è un obiettivo comune generale. Considerando anche due fattori specifici:
1-Il particolare momento felice per il mercato dei vini Asti e Moscato d’Asti. Va ovviamente consolidato.
2- I vigneti della zona d’origine del moscato, sono candidati in sede Unesco, il prossimo giugno, a diventare patrimonio mondiale dell’umanità.
Referenze
Fonti orali
Mediatori uva: Luigi Obice, Mario Sacco, Adriano Carelli.
Enologi: Franco Zoccola, Bruno Arione, Alberto Lazzarino, Felicino Bianco,
Camillo Cortemilia, Giuseppe Cavagnero, Daniela Pesce, Patrizia Marengo, Valter Bera, Massimo Vecchiattini.
Viticoltori: Mario Sandri, Giuseppe Borsa, Mario Mangiarotti, Giuseppe Dellapiana,
Armando Piazzo.
Altre fonti: Romano Dogliotti, Stefano Ricagno, Alessandro Boido, Consorzio Tutela Asti (Guido Bezzo), Sinergo (Paola Manera), Viten (Albino Morando), C.T.M (Giovanni Bosco), Daniele Eberle e il Centro Sperimentale Informatico (CSI) Regione Piemonte.
Fonti scritte
A. Strucchi e M. Zecchini: “Moscato di Canelli” – Utet -1895-Riedizione 1986- Fondazione G. Dalmasso.
R. Ratti: “L’Asti – Edizione Consorzio Tutela Asti-1985.
G. Mainardi P. Berta: Piemonte -Edizioni Unione ItalianaVini-1998.
L. Tablino: “I racconti del vino” in Barolo & Co (1988 -2012).
Archivio storico Fontanafredda.
Fotografie
Pag. 25 – Archivio Bobbio -Canelli
Appendici
A – Le sottozone vocate e i vigneti storici
Trattando dei sorì del moscato mi è parso utile evidenziare, in appendice, alcune considerazioni in merito alle sottozone vocate o ai vigneti storici, per dirla alla francese ai cosiddetti crus.
Per i più importanti segue una breve descrizione.
Come detto la zona d’origine del Moscato d’Asti è vasta.
Le condizioni pedoclimatiche cambiano per svariati motivi.
Da sempre enologi, mediatori, imprenditori hanno fatto riferimento a zone ad alta vocazione, ove la qualità dell’uva, per diversi motivi è ai massimi livelli qualitativi in termini di gradazione zuccherina, di quadri aromatici e altri parametri qualitativi. Alcune erano note già due secoli fa.
Per l’uva moscato, l’accordo interprofessionale fissa un prezzo unico per tutta la zona d’origine.
In vero sono previste alcune varianti secondo alcuni parametri qualitativi, esempio grado densimetrico e aspetto visivo e qui entra in gioco sia la posizione del vigneto, sia la sua razionale conduzione.
Ma la gestione non è mai stata semplice, comunque non determinate per fissare prezzi veramente diversificati in base alla provenienza delle uve da zone più o meno vocate.
Circa trenta anni fa Renato Ratti, allora direttore del Consorzio Tutela Asti, delimitò quattro sottozone particolari:
– Santo Stefano Belbo, con Castiglione Tinella, Camo, parte di Mango, e di Cossano Belbo con un Moscato dotato di un aroma di eccellente finezza e intensità (fiorale e fruttato) e di corpo medio
– Canelli, con Calosso e San Marzano Oliveto con un Moscato di ottimo corpo e di intenso aroma fruttato -agrumato.
– Calamandrana, con ben 11 comuni limitrofi, forma un quadrilatero con un Moscato di grande struttura e corposità. Il profumo presenta note olfattive che ricordano la frutta matura.
– Cassine con Strevi e Acqui in parte, con un moscato equilibrato nel corpo, e dall’aroma fruttato- dolce.
In vero si tratta di macrozone, ognuna con un Moscato particolare.
Il decreto ministeriale 21 novembre 2011 ha modificato il disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di Origine Controllata e Garantita “Asti” e Moscato d’Asti” istituendo tre specifiche sottozone “Canelli”, “Santa Vittoria d’Alba” e “Strevi”, regolamentandone l’eventuale utilizzo: “ La menzione della vigna di provenienza, purché il vigneto abbia un’età di impianto di almeno sette anni”, Fissando anche norme piu’rigide per la conduzione del vigneto: “tradizionale “contro spalliera” con potatura a Guyot, densità minima di quattromila ceppi per ettaro, resa massima di uva 9,5 tonnellate e titolo alcolimetrico volumico minimo naturale di 11° gradi”
Sono norme decisamente positive a tutela della qualità dell’uva e del lavoro del viticoltore. Ma si tratta sempre di zone molto ampie. Altra cosa sono le “sottozone vocate del moscato d’Asti “o vigneti storici”. Ma delimitarli e descriverli è tutt’altro che semplice.
La prima domanda da porsi è: perché un vigneto o una parte di una sottozona o di una frazione comunale nel tempo diventano famosi? Per la qualità dell’uva raccolta tra le sue vigne, viene logica la risposta. E’ più complesso. Se il principe di Conti non avesse fatto una guerra per donare alla sua favorita quel terreno nel comune di Vosne Romanèe, la vigna denominata “Romanèe Conti” oggi sarebbe così celeberrima? Se al cancelliere Metternik non avessero regalato Scloss Jhoannisberg per i servizi resi al congresso di Vienna, quella collina avrebbe rappresentato per anni l’eccellenza del Reno?
Lo stesso in Italia: Cannubi nella zona del Barolo è famoso sin dal 1700; Rabaja a Barbaresco, Rovereto nella zona del Gavi da almeno un secolo, per limitarmi a quelli che ben conosco.
Anche nella zona del Moscato, alcun vigneti sono famosi da tempo: Sant’Antonio di Canelli è il cru storico, noto almeno dal 1700; da molti anni sono apprezzati Moncucco a Santo Stefano Belbo e Valle Bagnario a Strevi, ect. Ma la domanda ritorna: quali i veri motivi per cui sono diventati celebri?
Se gli enologi della Martini e Rossi negli anni quaranta non fossero andati a Moncucco di Santo Stefano Belbo ad acquistare uve moscato, se il direttore di Fontanafredda non avesse scelto i viticoltori di San Siro di Calosso nel 1955, oggi quei terroir sarebbero così noti e ricercati?
E aggiungo: dove trovi i valori massimi di linaiolo? Oppure i 13,5 baumè allo scarico dell’uva nei torchi? Hai mai certezze! Nelle annate siccitose e molto soleggiate, come il 2003, tutto va a farsi benedire, scopri perplesso che le esposizioni a nord – est non sono poi così male.
Una regola per capire potrebbe essere questa: dove acquistano, da sempre, le uve i mediatori e i produttori. Dove i viticoltori spuntano i prezzi più elevati. Ecco allora un tentativo per descrivere le migliori posizioni o sottozone del Moscato d’Asti. Dove sono anche posizionati molti sorì o vigneti storici del Moscato. E’ parziale finché si vuole, ma è basato su quaranta anni di lavoro, di contatti e di esperienze in tutta la zona.
Moirano-Maggiora di Acqui.
Montersino- Serre- Bonina- Masucco- Molone di Alba.
Casale- Costa-Gattera di Alice Belcolle.
Garbassola di Calandrana.
San Siro- Crevacuore- Moiso- Monterotondo, Boscodonne di Calosso.
Brunetti – Solito di Camo.
Sant’Antonio – Serra Masio- di Canelli.
Annunziata di Castagnole Lanze.
Sant’Andrea-La Serra- Noceto-Cainula-Montecolombaro di Cassine.
Costa del sole e Cortile di Castelboglione
San Carlo – Caudrina – San Bovo – Manzotti di Castiglion Tinella.
Rovere- San Pietro, Scorrone di Cossano Belbo.
Bricco Lu – Sant Anna di Costigliole D’Asti.
Martini-Terrabianca-Luis- Riforno-Avene di Mango.
Tagliata -Vezzano di Maranzana.
San Giorgio di Mombaruzzo.
Gallina -Micca di Neive.
Scaletta, Coda -Sur Reymond di Neviglie.
Bazzana – San Michele di Nizza Monferrrato.
Valporcile-Vallerenza di Ricaldone.
Moncucco-San Maurizio-Bauda-Bruciata-Santa Libera di Santo Stefano Belbo.
Marchesa -Casarito -Pineto-Scrapona -Vallerizza di Valle Bagnario in Strevi.
Pajorè-Rizzi-Manzola-Valeirano-Marcarini-Montersino di Treiso.
Gentili – Roreto – Soglio di Trezzo d’Alba.
Alcune sottozone di alto pregio.
Descriviamo ora le sottozone storiche della zona docg del Moscato.
Quelle ormai conosciute da molti anni, le vigne ove i mediatori di uva moscato ambiscono acquistare, luoghi che danno prestigio alla cantina acquirente, che ne evidenzia i nomi sulle etichette delle bottiglie o nelle iniziative promozionali.
MONCUCCO DI SANTO STEFANO.
Forse la sottozona più celebre e conosciuta della zona d’origine del Moscato, da molti anni aggiungo.
“Le Langhe non si perdono”, confida il cugino dei “Mari del sud” nel romanzo di Cesare Pavese. Sta salendo la collina di Moncucco, punto panoramico di Santo Stefano Belbo, da cui si domina la valle del Belbo.
Se mentre percorri la strada Santo Stefano Belbo verso Valdivilla e osservi i muretti a secco a sostegno dei vigneti di Moncucco, puoi ancora ammirare un meraviglioso esempio di antica archeologia rurale.
La fama di questa collina si consolida quando gli enologi della Martini e Rossi, negli anni trenta-quaranta, vi acquistano uve moscato.
Moncucco è una sottozona vasta in gran parte esposta a est- sud est. Una bella chiesetta domina la sommità della collina. E’ dedicata a “Maria SS.ma Addolorata e della Neve”. Ogni anno dal piazzale di questa chiesetta parte il segnale per l’accensione dei falò. Le colline circostanti sono illuminate con effetti di forte suggestione.
Moncucco, infine, fu valorizzato, in etichetta a partire dal 2001, dalle cantine Fontanafredda, grazie ad una vinificazione in purezza delle uve moscato di quelle specifiche vigne. Non mancò un accattivante packaging per un’immagine di alto livello.
Un Moscato di altissimo profilo, equilibrato ed elegante, con profumi fruttato- fiorali, ricchi di linalolo.
BAUDA DI SANTO STEFANO.
Un‘altra zona di Santo Stefano Belbo, un cru ben conosciuto da tecnici e mediatori. Si trova a sinistra della strada che da Santo Stefano porta a Canelli, l’esposizione è molto soleggiata. Classico sorì del mezzogiorno.
San Maurizio, un altro luogo ricco di storia. Monastero Francescano, dal 1619, nel 1862, fu acquistato dal conte Luigi Incisa Beccaria che la trasformò in residenza privata. Oggi è uno stupendo relais.
Più in alto di San Maurizio, la sommità della collina di Valdivilla termina con “La Bruciata”. Un bricco di assoluto livello.
Le vigne che da Valdivilla scendono verso il rio di Camo, presentono sorì di mezzogiorno molto ripidi. Citiamo il più noto: Scarrone.
SANT’ANTONIO di CANELLI
La sottozona più antica di tutta la zona docg del Moscato d’Asti. Sin dal 1700 stando ad alcune fonti orali. Limitandoci a quelle scritte in un vecchio testo: “Moscato di Canelli”- U.t.e.t. 1895- gli autori A. Strucchi e M. Zecchini scrivono che dalla borgata “veniva metà del Moscato prodotto in tutta la zona, oltre 75.000 quintali di uva”. Quali le motivazioni di una fama, da tempo consolidata, di queste terre, di queste vigne, di queste cascine? Le terre: piene di calcare con poca sabbia e poco potassio; un tufo bluastro, ma disfatto, segno di un terreno antico. Molte vigne sono dei grandi sorì di mezzogiorno. Inoltre la vallata è poco esposta ai venti. Questa storica sottozona fornì certamente l’uva moscato alla nascente industria spumantistica canellese nella seconda metà del sec.XIX.
VALLE BAGNARIO DI STREVI.
La storia di Valle Bagnario si perde nel tempo.
: 5 ottobre – 1078
“ permuta tra la badessa Gisolfa del monastero di Santa Chiara e Benso e Rimanno per “due pezzi de vites” proxitio in loco Bagnaria “.
8 febbraio 1589
“ Scrissi alcuni giorni alla sigg, ra vostra di ordine dell’illustrissimo sig. presidente dei magistrati ……per una quantità che si desiderano inviare a Mantova per una vigna del duca serenissimo.
Firma Cesare Gandolfo segretario del presidente magistrati del marchesato di Casale –ducato di Mantova “.
Il testo già citato di A. Strucchi e M. Zecchini descrive un Moscato bianco di Canelli e di Moscato di Strevi. Quasi per distinguere le due qualità, a voler rimarcare un territorio ad alta vocazione.
Il tutto è correlato alla natura del terreno: tufo bianco, mescolato con strati di sabbioni. Inoltre Valle Bagnario secondo anziani enologi ha le massime somme termiche tra i vicini comuni. Forse per questo motivo l’appassimento delle uve è pratica antica e consolidata in questo piccolo terroir. Un piccolo produttore, Ivaldi, ne conserva alcune del 1868.
CAUDRINA DI CASTIGLIONE TINELLA
Nel comune di Castiglione Tinella la sottozona Caudrina è posto in una deriva da un terreno con presenza di tufo bianco-azzurrino piccolo (toet). Minor presenza di calcare e un po’ di sabbia.
L’altitudine è sui 280-300 m. slm. Esposta a sud -sud ovest.
Dona dei Moscato con aromi eleganti del tipo fiorali – fruttati, in specie albicocca -pesca. Molto intensi ed eleganti, struttura e persistenza aromatica buone.
Come nei vicini crus denominati Manzotti, San Carlo e San Bovo.
SAN SIRO E CREVACUORE DI CALOSSO
Calosso è da sempre considerato zona di alto profilo per il Moscato.
Molte cantine, piccole e grandi, si rifornivano nelle vigne di questo comune.
Fontanafredda scelse San Siro e Moiso di Calosso nel 1955.
Ricorda un anziano mediatore: «.Mio padre iniziò ad acquistare uva moscato per Fontanafredda nel 1955; il dottor Vittorio Ferro contattò il San Paolo di Calosso che dette le necessarie garanzie. Il primo anno acquistò 2.500 miria, a Calosso nelle frazioni Moiso e San Siro. Acquistava in zone vocate, ricordo solo a sinistra del Tinella”.
Il moscato di San Siro e Crevacuore è simile a quello di Moncucco.
Equilibrio e aromi ai massimi livelli.
TERRABIANCA DI MANGO
Le famose “Terre bianche “ tra Mango e Cossano Belbo.
In questa zona le vigne di moscato sono ad un‘altitudine di 450-500 mt slm.
Zona ricca di boschi, dal paesaggio ancora del tutto integro.
Terreni compatti, come dice il nome di colore bianco, grazie alla presenza di calcare. Esposti a sud- sud -ovest.
Un clima un po’ più freddo, rispetto alla media della zona.
Alla degustazione si riscontrano profumi più erbacei -salvia in specie- unite a note fiorali e fruttate.
L’acidità fissa è maggiore e la struttura di livello medio.
Ricorda un anziano mediatore: «.Augusto Manzo, il campione di pallone elastico, presentò mio padre al direttore di Fontanafredda; allora faceva il vivaista a Prato Grimaldi di Santo Stefano Belbo. I primi anni – 1958-60 – acquistò uva a Mango, in particolare alle Terre bianche e ai Luis, zone molto ricercate.
ROVERE – SAN PIETRO- SCORRONE DI COSSANO BELBO
La piccola chiesa di “Madonna della Rovere” domina la zona. Rovere e San Pietro appartengono a colline diverse, ma sono entrambi sorì per eccellenza del comune di Cossano Belbo, con la maggior parte dei vigneti esposti a sud, sud- ovest.
Si ottengono Moscato dalla totale complessità, alte gradazioni zuccherine, ricchezza di quadri aromatici.
Scorrone, una località verso Castino ha vigneti esposti a ovest.
In annate siccitose presenta moscato di grande levatura.
A Camo ricordiamo Brunetti, Dronere e Solito.
Qualità di alto livello simile a Rovere.
SANT’ANDREA DI CASSINE
La parte della provincia di Alessandria con minor altitudine: circa 200 m. slm.
Terre bianche con buona presenza di calcare.
Si ottiene un moscato particolare: molto “grasso, dagli aromi “dolci e complessi” e con minor acidità fissa. Altre sottozone vocate a Cassine le troviamo alla Serra- Noceto-Cainula-Montecolombo.
VAL PORCILE E VALLERENZO DI RICALDONE
Due zone di alto pregio della provincia di Alessandria.
La natura del terreno è diversa, con buona ricchezza calcarea e presenza di tufo bianco. L’altitudine: sui 300 mt /slm.
Gli aromi di grande intensità ricordano la frutta matura e le note agrumate.
Il gusto è dolce per eccellenza, con un colore in genere più carico.
SCALETTA, SUR REYMOND E CODA DI NEVIGLIE
La parte cuneese della zona docg del moscato con terreni ricchi di calcare e argilla.
Moscati con eleganti profumi erbacei, di buona acidità ed equilibrio.
Coda è un noto bricco verso Mango. Più in basso Scaletta e Sur Reymond sono ottime sottozone di mezzogiorno. A Trezzo noti sono Roreto, Soglio e Gentili, tutti esposti a sud -sud est. Mentre a Neive Gallina è il cru storico del paese. Di ampia superficie, ben esposto a sud est. Citiamo anche Micca sulla collina verso Mango.
B – UN PO’ DI LETTERATURA SUL TERRITORIO DELL’ASTI E DEL MOSCATO D’ASTI.
Cossano Belbo
LO SCASSO PER I SORÌ –1945
Lo scasso per un nuovo vigneto.
Il lavoro più massacrante per gli anziani viticoltori.
Quando non c’erano mai nella vigna né aratri, né trattori.
C’era solo l’uomo con il piccone o il forcun a due denti. Qualche volta si era costretti a tirare su quegli splendidi terrazzamenti: pietra su pietra, muro su muro.
Si restava in compagnia di molta fatica e soprattutto di tanto freddo.
Lo scasso e i terrazzamenti si eseguivano in inverno.
Nel duro inverno del ‘45 Luigi procede allo scasso dei vigneti, tre giornate in alto verso località” Boschi”. .
Un lavoro faticoso, lungo e impegnativo ma necessario per il futuro della cascina.
Tutte le mattine, prima del levar del sole, accende la forgia, gira la ventola, il carbone arroventa la punta del picco. Occorre temprarla perché affondi meglio nella dura terra.
Luigi procede nei lavori da solo, va a fondo anche 120-150 centimetri. Trova già a mezzo metro tufo bianco e azzurro, ma anche pietre e qualche strato di sabbioni.
Trova pure pochi centimetri di gesso.
Le pietre-che chiamavano lose – le mette da parte; serviranno per i muretti a sostegno dei vigneti.
Un giorno un viticoltore di Mango disse: “Il moscato migliore? Quello dei muretti, non c’è dubbio”.
I muretti a sostegno dei vigneti ripidi come non mai, l’uva prende luce e sole.
Le pietre raccolgono il calore di giorno e lo cedono di notte.
In inverno le lose maturano, causa il gelo.
Il tufo invece diventa ogni tanto ottimo rifugio per un piccolo uccello della coda bianca.
In dialetto lo chiamavano “Coa bianca”
Scava con il becco appuntito una piccola apertura, poi prepara il nido all’interno, al riparo nella terra.
Sant’Antonio di Canelli
LA COPERTA DEL MOSCATO – 1918
La coperta del Moscato: l’incubo di intere generazioni di moscatisti. Quando non c’era nessuna tecnologia di supporto: nè frigo, nè flottatori, né enzimi. C’era soltanto l’abilità del cantiniere. Se la coperta non veniva, se scappava, era un danno economico, un vero pasticcio.
Era un attimo, era una lotta di nervi, occorreva guardare il Moscato appena torchiato e capire il momento giusto. Prima no! Il mosto era ancora torbido. Dopo? Beh! Fermentava, addio Moscato e reddito. Se erravi, compromettevi tutto.
Un lavoro dove contavano l’occhio e il naso, solo quelli, solo i tuoi.
Livia non sa come fare, ha paura, tanta paura, non riesce a prendere sonno. È di nuovo salita su dalla vasca, ha ripercorso la stretta scala, non riesce a stare lontano da dove il Moscato forma la coperta, deve controllarne la superficie, è ancora compatta, ma per quanto tempo ancora?
Con le dita, delicatamente, sposta lo spesso strato superficiale, sotto il liquido per il momento è calmo. Livia sa che è questione di attimi, non deve assolutamente rischiare, guai se inizia a muoversi ed intorbidirsi, non si fermerebbe più.
Torna sotto, prende la pesante sveglia, cerca di regolare la suoneria, ma per quanto? Mezz’ora? Basterà? Ci ripensa, solo quindici minuti. Si butta su un vecchio pagliericcio bucato, è troppo stanca, piena di pensieri, resta sveglia. Sarà così per alcune notti, è il periodo delle coperte. “Il più brutto”, diceva suo padre.
Ha imparato tutto, anni fa: la colla l’acquista a Canelli dallo speziale Drago, è in pacchetti bleu; non usa bisolfito, l’uva è sana. Le coperte vengono in 8-10 ore, qualche volta impiegano più tempo, anche 14 ore o più, dipende dall’annata. “ Se il Moscato è più grasso”, diceva suo padre.
Livia è di nuovo vicino alla vasca, osserva la coperta, lo spessore dello strato marrone sembra aumentato, anche il colore è uniforme. È il momento decisivo, il Moscato va controllato a vista, appena iniziano a vedersi in superficie accenni di crepe o tagli, bisogna aprire il rubinetto di bronzo enologico e tirare il Moscato nella vasca di sotto, altrimenti fermenta e addio coperta.
Strevi
COME SI TORCHIAVA IL MOSCATO -1920
L’ importanza del torchio quale strumento di cantina nella civiltà del vino e nota da millenni.
Per anni, nelle cantine ove si produceva il Moscato sono stati usati i vecchi torchi meccanici tipo Marmonnier, con la gabbia quadrata o circolare di legno. Andavano benissimo: la sofficità della torchiatura e il rispetto dell’uva erano ineguagliabili. Ma erano molto onerosi in fatto di lavoro dovendo rivoltare tre volte le vinacce per ogni pressata. Anche lo scarico era del tutto manuale, ovvero con i tridenti. Uno scenario dominato dall’inconfondibile rumore dei saltarelli con il consueto contorno di fatica, sudore, stanchezza, orari impossibili, cantinieri nervosi. Era la vendemmia del moscato.
Si vendemmia il moscato. L’uva arriva sul piazzale, si pesano tutti i carichi, si aggiunge il bisolfito in grani direttamente. Nelle navazze, poi va alla Garolla, una pigiatrice a rulli.
Si schiacciano gli acini in modo soffice, guai spaccare i vinaccioli.
Anche i raspi restano interi per non “dare amaro”.
Un’enorme pompa a pistone invia il pigiato a quattro torchi Mabille.
Sono imponenti nella loro mole con i pesanti ingranaggi a ruote dentate.
Pressano cinquecento miriagrammi di uva, uno arriva a mille.
Il lavoro è faticoso.
Con il torchio pieno si deve far girare la testa, avvitandola verso il basso, sino a che non tocchi gli spessorì di legno massiccio e il coperchio di legno posto sopra l’uva.
Poi sì “da al torchio”: due uomini muovono avanti e indietro la pesante asta di legno che serve a fare girare la corona dentata che alza e abbassa i saltarelli.
Pressare l’uva non è facile, con il moscato è ancora più difficile, è “grasso” dicono i cantinieri, scivola dappertutto. Occorre professionalità.
Se il torchio “non piange si rischia il pacco”, ovvero uva ammostata e pressata con dentro sacche di mosto che resta prigioniero dell’uva senza poter uscire. La vinaccia resta umida.
Di norma si smette di “dare al torchio” dopo cinque minuti, oppure quando la vinaccia sta per uscire dalla gabbia di legno. Si rischia di” spararla” per eccesso di pressione.
Per questo motivo il moscato si pressa sempre con i raspi. Di norma sì da torchio cinque o sei volte, ma occorre valutare molte cose, la sanità dell’uva in particolare. Si sta fermi dieci minuti, poi di nuovo a muovere le braccia per “ dare pressione”
Spostare quella leva, dura e pesante, rompe le braccia.
Quattro ore, non meno, per la prima pressata nel torchio grosso.
Occorre forza, soprattutto alla fine, quando la pressione deve essere intensa e continua.
Infine si aprono le due gabbie del torchio, si lavora con i tridenti, si sposta la vinaccia nei torchi piccoli, rompendola.
Si riprende come prima. In genere si passa l’uva in tre torchi prima di esaurirla.
C’era un’intesa tacita tra Brovia e i suoi dipendenti. Non andare via se non si fa “piangere il torchio”.
Alle due di notte, dopo sedici ore di lavoro chi ha voglia di” fare piangere il torchio?”. Ovvero, estrarre ancora pochi litri di mosto dall’ultima vinaccia. Un banale trucco, lo sanno tutti, lo applicano tutti.
Si bagna l’uva pressata con un po’ di mosto e il torchio “ piange “subito.
I cantinieri stanchi vanno a dormire.
Castiglione Tinella
I SACCHI OLANDESI -1958
Il Moscato d’Asti si filtrava con i sacchi olandesi affinché rimanesse dolce e conservasse i suoi stupendi aromi. Il nome “olandesi” deriva dalla tela, di qualità eccellente. La indossavano i marinai della regia marina olandese nei secoli scorsi. Ma anziani enologi o spumantisti ricordano ancora bene i molton, usati sino agli anni cinquanta per la filtrazione del moscato e soppiantati dai primi filtri pressa a farina fossile. Molton, con le varie influenze dialettali, deriva certamente da mollettone, ovvero il panno pesante di cotone usato soprattutto come sottotovaglia. Solo alla fine degli anni ’50, inizio anni ’60 secolo scorso arrivarono in Piemonte i primi filtri meccanici Gasquet, Gianazza e Dal Cin.
“I sacchi olandesi li ricordo bene. Usavamo quelli molto lunghi, ma si intasavano spesso.
Nel 1946 tenevamo una batteria di 36 sacchi.
Servivano per due cambi.
Per filtrare con i sacchi si procedeva così: si legava il sacco al rubinetto, si tirava dritto, si allungava bene.
Poi si prendevano i cordini. Erano molto resistenti.
Si legava il sacco da ambo le parti.
Si chiudeva bene la tela, arrotolandola al rubinetto.
Al fondo il sacco era molto largo.
Oltre un metro.
Si attendeva e si chiudevano bene le pieghe.
Si legava bene al fondo.
Ora si metteva il calzetto esterno, ovvero una tela grossa che teneva il sacco, che ne impediva l’apertura.
Era giunto il momento di aprire il rubinetto.
All’inizio, il Moscato passava bene e soprattutto il vino era limpido.
Si vedeva uscire un filo continuo, poi gradualmente il sacco gocciolava solo, prima forte, poi adagio.
Si intasava la tela, insomma.
Ma si lasciava scolare lo stesso per tutta la notte.
Al mattino si toglieva il sacco dai rubinetti, slegando i cordini.
Si portava su un bonsa, si apriva di sotto e si scaricava il Moscato feccioso.
La seconda volta che si usavano i sacchi si metteva un po’di filtrina per ottenere un Moscato più limpido.
Lavare i sacchi sporchi è sempre stato il lavoro tra i più faticosi per chi faceva il Moscato.
Si caricavano su un carro trainato dal cavallo, scendevamo in un campo nella valle dove c’era un pozzo.
Si tirava su l’acqua a mano in un secchiello. Era molto fredda”.
Avrei ricordi personali di come si vinificava in passato e mi sono ritrovata in molti passaggi del racconto