Anziani enologi o spumantisti ricordano ancora bene i molton, usati sino agli anni cinquanta per la filtrazione del moscato e soppiantati dai primi filtri pressa a farina fossile. Molton, con le varie influenze dialettali, deriva certamente da mollettone ovvero “il panno pesante di cotone, ma anche lana e seta, usato per coperte e scialli ma soprattutto come sottotovaglia”.
Trezzo Tinella, 1993. Nicola è indeciso.
«.L’aspettano – l’anziano mediatore insiste – domani caricano il moscato, le donne preparano il pranzo, si invita la gente. Hanno sempre fatto così, è un giorno importante; se non va si offendono. Mi ascolti, enologo.».
«.Va bene – dice Nicola – quando arriverà il camiòn per il secondo viaggio di Moscato ci sarò anch’io, per ora grazie.».
«.Non si pentirà.» dice il mediatore.
Nicola ha lasciato il bivio di Neive, è sulla provinciale per Trezzo, sulla destra si susseguono ripide colline. Dopo qualche chilometro arriva ad un piccolo piazzale; trova una costruzione a tre piani di fine Ottocento, davanti all’ingresso un piccolo giardino molto curato. Entra nell’ampia sala da pranzo, tra mobili color nero spiccano grandi fotografie, le figure femminili sono eleganti e signorili. La tavola è preparata con molta cura, per un’occasione non comune. Nicola saluta gli altri invitati. «.Garel! Andrea Garel! Da tempo non ci vediamo, come va?.».
«.Bene enologo, ho assaggiato il Moscato che avete caricato stamane, è eccezionale.».
«.Sembra quasi quello di Calosso.» dice Nicola.
Garel ride: «.Guardi che io ho sempre fatto del grande Moscato, lei lo sa.».
Nicola saluta gli altri, parla con Renzo Manzone, il proprietario della cantina.
È alto, avanti con gli anni, sicuro di sé. «.Siamo contenti di servirvi – fa rivolto a Nicola – la nostra è una piccola cantina, vinifichiamo solo le nostre uve moscato, da sempre.».
Inizia il pranzo, ci sono dodici persone: i familiari di Manzone, quelli di Garel, due vicini di casa e il mediatore. La seconda portata è squisita: sono involtini formati da due diverse frittate, tra loro un ripieno di tonno e prosciutto, il sapore è delicato.
«.Quanto tempo avrà impiegato sua moglie a preparare tutto?.» chiede Nicola.
«.Aspetti – dice Garel – oggi si carica il vino: è un pranzo speciale.».
«.Concludiamo il lavoro nella vigna – dice Renzo – tutta la famiglia è riunita con gli aiutanti e gli amici perché siamo contenti; è giusto così. Grazie per la sua presenza, enologo.».
«.Avete ucciso il gallo?.» fa Garel. Manzone conferma.
«Vede – dice Garel – perché tengono nel pollaio il gallo migliore.».
Nicola è contento, si trova con due grandi moscatisti che conosce da tempo, l’ambiente è giusto per sentire tante esperienze.
«.Lei è di Valdivilla?.» chiede Garel.
«.Certo – conferma Nicola – mia nonna teneva un piccolo negozio, vendeva di tutto. A Valdivilla il moscato è buono, anche se in questi ultimi anni ne fanno troppo.».
«.Sua nonna aveva un negozio?. – chiede Manzone. – Era alla frazione Bosi?.».
«.Certo – dice Nicola – conosce qualcuno?.».
«.Altroché, la nostra cantina era a Mango.».
«.Ma da quanto tempo fate il Moscato?.» chiede Nicola.
«.Iniziò mio nonno, penso dal 1890, avevamo la cantina a Mango al bivio per San Donato, sulla circonvallazione.».
«.A Calosso quando avete iniziato?.» fa rivolto a Garel.
«.Forse prima di voi, anche mio nonno vinificava per Nebbia e Bertoletti, per Fassio, per Marengo.».
«.Sa cosa ho trovato l’altro giorno nel solaio? – dice Manzone – non lo immaginate proprio. Due molton, saranno stati cinquant’anni che erano là.».
«.Ricordo di averli usati anch’io, ma non li ho più.», dice Garel.
«.Lei sa, enologo, a che cosa servivano i molton a noi moscatisti?.».
«.No, come li chiamate… molton? Mai sentiti.» dice Nicola..
Mango, 1944. Si vendemmia ai Luis, la cascina dei Manzone; le manovali di Gorrino in alta valle Bormida sono nei filari, stanno riempiendo le grosse ceste in castagno, sulle capezzagne due coppie di buoi attendono. Ci sono anche Angelo e Giorgio, i fratelli di Renzo Manzone.
«.Sono anni che non vedo del moscato così – dice Angelo – guarda che grappoli.».
«.È la zona migliore di Mango – dice Giorgio il fratello – alle Terre Bianche non hanno questo profumo.».
«.Non abbiamo ancora le Rupestris, le viti americane più adatte, i grappoli sono piccoli come un pugno, gli acini lontani tra loro, rendono niente al peso, ma fanno gradi.».
«.Ho mai avuto le mani così attaccaticce.» dice Angelo.
Giorgio è davanti ai buoi, la strada sino a Mango è lunga; con un pezzo di salita dura, i buoi faticheranno pensa Giorgio, il carico d’uva è completo. Si gira un attimo, non ricorda una vendemmia così bella.
Il grosso portone in legno è aperto, un manovale sta aspettando, dentro tutto è a posto.
La scorsa settimana tutti hanno lavorato per lavare, pulire, ingrassare le vasche, i torchi, le pompe a mano, le bònze, le brente e i garˆòss. Due manovali sono al lavoro, scaricano le ceste di moscato nei torchi in legno, sono due Gambino a gabbia grande rotonda, ognuno tiene venti quintali d’uva, alla fine con cura sistemano l’asse rotondo, l’altro manovale prende in mano la sbarra per girare, li aspetta un duro lavoro per buona parte della notte.
«.Posso entrare?.», un uomo è fermo sulla porta; è Fogliati, industriale di Canelli; ha un completo grigio, elegante, con il cappello e una sciarpa nera, è acquirente da molti anni del loro Moscato.
«.È il primo giorno di vendemmia – fa Giorgio. – Abbiamo iniziato ora.».
«.Che uva! – dice Fogliati – penso al Moscato che farete.».
«.Qui sono sempre stati tutti contenti, Coppo, Graziola e altri.».
«.Non abbiamo ancora fatto i gradi.» dice uno dei manovali.
«.Prendi un po’ di mosto dalla vasca.», dice Giorgio; da un cassetto estrae un astuccio bleu.
«.Possibile?.» fa l’industriale.
«.Ventotto – dice Giorgio – ventotto, aveva ragione mio fratello.».
«.È dei Luis.» dice l’altro manovale.
Calosso, 1944. «Vieni Andrea – suo padre lo chiama, accanto c’è la brenta di Moscato. – Girati.».
Afferra la brenta, la sistema sulle spalle di Andrea, tira le cinghie, «.vai, dobbiamo caricare per Fassio di Serravalle d’Asti.». Davanti alla cantina c’è un tiro di cavalli con tre botti.
Andrea si incammina verso la scaletta, è sul carro.
«.Attento – fa suo padre – non chinarti troppo, vedi di versare adagio.».
Il Moscato finisce per terra: Andrea non sa regolarsi, non capisce se deve stare più lontano dalle botti, le spalle fanno male, suo padre impreca.
«.Stai attento, hai vent’anni e non carichi ancora con la brenta! Che figura fai? Devi imparare.».
Sulla piazza di Calosso qualcuno si ferma, guarda, Andrea continua a versare, del vino va fuori, suo padre gli dice di smettere. «.Guarda!.».
Il carico è completo, Andrea osserva suo padre, sta rasando le botti da solo, con maestria colma con un filo di Moscato che scende sull’imbuto, la brenta è quasi vuota.
«.Imparerai anche tu, stai tranquillo.» dice ad Andrea.
I cavalli sono pronti per il peso. «.Avete tribolato sulla salita?.».
«Sì – dice Fassio – abbiam messo il tiro di cavalli davanti ai buoi; per fortuna i cavalli si adattano e vanno adagio.».
«Voi non prendete l’appalto per caricare le botti?.».
«.No, ci sono i brentatori di professione, noi abbiamo due brente e facciamo da noi, Garel ha sempre fatto così, Andrea oggi ha iniziato anche lui.».
«.Sono di castagno le botti?.».
«.No, di gaggia, perché è l’unico legno che tiene bene il Moscato dopo la filtrazione; noi abbiamo delle botti in gaggia perché abbiamo molte piante. Quest’inverno ne farò tagliare due di quarant’anni. Qualcuno usa il pesco?.».
«.Certo, anche noi ne abbiamo, ma soprattutto usiamo le foglie di pesco per la liscivia. In primavera andiamo dal farmacista di Santo Stefano, acquistiamo un chilo di soda Solvay, laviamo bene le botti con acqua calda e poi con foglie di pesco, qualcuno usa anche i rametti.».
Mango, 1944. Renato continua a guardare dalla finestra chiusa, fissa tra le ante in legno, intravede appena la gente che passa per le vie del paese. Così da quattro mesi, tutti i giorni, passa sempre qualcuno, ogni tanto dei bambini si fermano a giocare. Renato è contento, capisce le parole, le urla, i bisticci, partecipa anche lui, il giorno è meno lungo. L’altro giorno ha sentito dei rumori diversi, era iniziata la vendemmia.
Scappò da Alba nella notte, alla svelta, l’avevano avvisato dal Comune, poche cose nella borsa, veloce oltre la Cherasca, poi la ferrovia e il buio delle gallerie. La più lunga Ghersi – aveva letto metri 1835 – non finiva mai, Renato tremava mentre due persone lo spingevano tra le pietre annerite dei binari. Arrivò a Mango che stava per albeggiare, guardò ancora una volta verso Neviglie; sapeva cosa l’aspettava, era ancora fortunato.
«.Sono amici – disse uno dei due – qua sotto hanno la cantina, fanno il Moscato, sta attento c’è sempre gente che va e viene, non deve vederti nessuno, altrimenti fanno la spia e incendiano la casa.».
Arriva una signora. «.Come ti chiami?.».
«.Renato.».
«.Bene, chiamami Rosa; vieni sopra, c’è la stanza. Ricordati: non devi mai aprire le ante, assolutamente, nessuno entrerà in camera, parlerai solo con me e mio marito.».
Renato esita un attimo sulla porta, guarda dappertutto, cerca con lo sguardo qualcuno, la via è deserta. La porta si chiude.
Mango, 1944. Renzo non dorme da cinque giorni, Rosa è preoccupata, insiste: «.Per una notte vai nel letto, devi proprio restare lì su quei sacchi di juta nell’angolo?.».
«.È il Moscato, non deve iniziare a fermentare.», Renzo sale per una ripida scala in legno, alla terza vasca, quella più in alto, controlla la coperta, è venuta bene, prepara le gomme per il salto. Se riesce fa sempre due coperte, i filtri olandesi lavorano meglio e non si intasano.
La seconda vasca sta filtrando, ci sono trenta sacchi olandesi attaccati, i rubinetti sono stati aperti da poco, un filo di Moscato scorre nella prima vasca, quella più in basso.
C’è un cambio di sacchi da lavare. Andranno giù allo riavolo, nel vallone di Camo. Renzo spera ci sia abbastanza acqua: quando c’è siccità non c’è corrente e non si risciacqua niente; allora caricano di nuovo in spalla le tele e giù lungo lo riavolo per il sentiero ripido sino alla confluenza con il Belbo.
Qualche volta trovano uno strato di ghiaccio, con una mazza lo rompono, poi nell’acqua gelida fanno passare i sacchi uno per uno. Vanno avanti finché le mani resistono.
Angelo continua a muovere l’asta della pompa; manda nelle vasche il Moscato uscito dai torchi. La vendemmia tra due giorni terminerà. Ogni tanto guarda suo fratello, riesce a stare sempre sveglio.
«.Senti, Angelo: domani filtriamo per la seconda volta la vasca di Moscato, quella da cinquanta brente, là in fondo, la ritira Fogliati. Viene a caricarla con il camiòn, è quella che al Babo faceva ventotto, nessuno ci credeva. Prima di caricare il vino, lo filtriamo una terza volta con i molton, verrà brillante come non mai.».
Calosso, 1944. Hanno bussato alle otto di sera, Garel ha subito aperto, piangono tutti e due, dietro loro c’è un àrbi colmo di moscato. Garel ha subito capito.
«Vi hanno mandato via, come gli altri.».
«.Maledetti – dice la donna – dopo due giorni vengono a dirci che l’uva fermenta e non interessa più.».
Il piazzale della fabbrica di Boglietto è pieno di carri d’uva; qualcuno è lì fermo al sole da tre giorni. «.Per forza fermenta… lo fanno apposta per pagare meno l’uva, tutti gli anni. Le abbiam portate via, non è giusto.».
«.E adesso – chiede Garel – cosa farete?.».
Un attimo di silenzio poi parla la donna. «.Le ritiri lei, la supplichiamo.».
Garel guarda le uve, ed anche il mosto pieno ormai di bollicine, sono calde, ma la qualità è ottima, «.vengono da San Maurizio, sopra Santo Stefano.».
«.Sì! sì! conosco bene la zona.».
È sera, Garel è indeciso, ha pigiato molta uva. La donna cerca il suo sguardo, cerca di parlare, il silenzio dell’uomo è dignitoso.
«.La supplichiamo.», continua a ripetere la donna. Garel deve decidere.
«Va bene, appena il torchio è libero, potete scaricare, pagherò l’uva quando avrò venduto il vino, lo dò a Marengo, quello di Alba vicino alla ferrovia; lo manda in Francia, mi ha detto.».
Mango, 1944. «.Domani stacchiamo gli ultimi grappoli di moscato, vuoi venire anche tu, Renato?.».
«.Come, sono quattro mesi che non esco, riesco solo a vedere la gente dalla finestra, mi hai insegnato i nomi di tanta gente, adesso vado a vendemmiare?.».
«.Senti – dice Renzo – nelle vigne c’è molta gente, chi si accorge di te? Vieni, sarai contento.».
«.Ho paura.».
«.Stai tranquillo, l’altro giorno è andata bene.». Erano arrivati i tedeschi a Mango, in pieno pomeriggio; Rosa lo aveva quasi buttato nel pozzo, subito coperto con delle bònze. Era rimasto dentro due ore, aggrappato a pochi mattoni; le gambe tremavano; nel buio e nel silenzio fissava solo l’acqua che vedeva appena.
«.Vedi quel carro? Ci sono delle gorˆbé alte da bozzoli; esci svelto, entra dentro e stai giù».
Il viaggio sino al Luis è stato un massacro, Renato traballava, non vedeva niente, aveva paura di rovesciarsi. Scende dal carro, è a disagio, le manovali di Gorrino lo guardano, ma lui fissa lontano. Quattro mesi tra le solite mura, gli stessi spazi, le stesse misure, gli stessi rumori, ogni tanto si sentono i torchi in funzione. Adesso ha tutto davanti a sé, la terra ed il cibo, si sente male.
Renzo lo porta nel filare; Renato inizia a staccare l’uva, non riesce, va adagio; le manovali lo guardano, qualcuna capisce, continua a lavorare.
«.Domani viene Fogliati a caricare, a Mango Angelo sta preparando i molton.».
Mango, 1944. È arrivato il carro dei salesiani. Sono tre frati su un carro con tre botti; passano in tutte le cascine, tutti danno qualche litro di vino. Ogni tanto arriva anche il parroco di Santo Stefano; è l’unica persona che sa di Renato, lo va a trovare parlano un po’ assieme.
L’altra sera hanno fatto un’imprudenza: dopo mezzanotte sono andati da un parente del parroco, hanno mangiato del salame, poi hanno passeggiato sino a Riforno, parlavano di tante cose, della fine della guerra.
In cantina stamane iniziamo a filtrare, aspettano Fogliati. Angelo prende i
molton. Sono dei panni color giallo chiaro, a forma conica; sono lunghi un metro, il diametro è di cinquanta centimetri. Vengono agganciati a dei cerchi e appesi sotto le vasche. Ne sistemano tre.
Rosa prende della carta bianca, la mette in un mortaio, con pazienza la pesta sino a sminuzzarla, poi versa dell’acqua, continua a pestare, sino a formare una poltiglia. Angelo versa il tutto dentro i molton, aveva già aperto il rubinetto: inizia la filtrazione.
«.È cristallino.» dice Renzo.
«.Con i molton, per qualche settimana non fermenta; il freddo farà il resto.».
«.Quello che resta in cantina lo mettiamo in bònze fuori, così gela. Speriamo faccia freddo. Mi ricordo da piccolo, andavi sempre a leccare i ghiaccioli di Moscato.».
Arriva Fogliati. «Venga, stiamo finendo di filtrare il Moscato.».
Angelo versa il Moscato in un bicchiere, Fogliati lo alza, che colore e che limpidezza, sente il profumo. «.Usate i molton.» dice.
«.Sì, stia tranquillo, è filtrato bene.».
«.È come quello di Sant’Antonio di Canelli.», Fogliati non dice altro.
Mango, 1945. Qualcosa è cambiato, passa più gente, Renato ha visto anche i partigiani di Poli scherzare con le ragazze.
Finalmente può uscire: è finita la guerra, parla con tutti, ti chiami Francesco, ti chiami Anna, dice i nomi a tutti. Li ha visti passare tra le ante di quella camera in tante sere e notti, ricorda i nomi; Renzo era contento di nominare tutti quelli che passavano.
Ha fatto il giro del paese, sovente si ferma, pensa, molti lo guardano, davanti alla chiesa lo chiamano. «.Renato, non eri in Svizzera?.». È una ragazza di
Alba, erano insieme al liceo.
«.No! sono sempre stato in Italia.».
«.Dove, qui a Mango?.».
«.Sì, vieni, ti faccio vedere la stanza.».