Il nostro paese ha un’antica tradizione riguardo alla vinificazione delle uve a bacca bianca.
Seppur per secoli le tecniche di lavorazione furono molto empiriche, di fatto solo intorno al sec. XVIII si iniziò ad utilizzare alcune pratiche per i mosti da uve bianche, in seguito la produzione dei primi spumanti italiani stimolò le cantine a studiare varie soluzioni applicative.
Con gli anni sessanta del secolo scorso, la tecnica del freddo e i primi serbatoi inox innovano in modo decisivo la produzione dei bianchi.
Vediamo allora un po’ di amarcord in merito. La zona di riferimento è l’Oltrepò Pavese; di fatto per molti decenni è stato il serbatoio per il rifornimento dei vini base per tutte le industrie spumantistiche piemontesi. Zone ad alta vocazione per la qualità dell’uva erano considerati, in particolare, i comuni di Lirio, Montecalvo e Rocca di Giorgi. Tutti situati nelle valli Scuropasso e Versa.
Il periodo preso in considerazione è quello tra il 1920 e il 1940.
Iniziamo con la testimonianza di un anziano mediatore della zona, Luigi Rampini:
Sino alla seconda guerra mondiale le uve venivano ritirate solo in casse da 22 kg cadauna. Allora nelle vigne erano presenti tre tipologie di uva pinot: bianchi, grigi e neri; soprattutto questi ultimi erano ricercati dalle aziende spumantistiche.
Si trattava di una apposita cultivar fatta mettere a dimora dalla Cinzano negli anni trenta del sec. scorso: i grappoli si presentavano molto piccoli e compatti; si diceva fosse la migliore uva dell’Oltrepò per vini base spumante. Anche Martini e Rossi e Gancia la ricercavano.
La torchiatura dei pinot – Broni, Valle Scuropasso, 1930
Si vinificano i pinot neri. L’uva arriva sul piazzale su carri trainati da buoi, è sempre raccolta in cassette, si controlla il peso e si avvia il carico verso i quattro torchi in legno quadrati “Marmonnier”.
Sono imponenti nella loro mole che porta sulla testata pesanti e complessi ingranaggi rotanti a ruote dentate. Pressano circa quattrocento miriagrammi di uva intera cadauno. Le cassette vengono scaricate direttamente a mano nel torchio, questa operazione è sempre svolta dai conferenti.
Quando la gabbia è piena, operazione chiamata in gergo “colmeira”, inizia il processo di pressatura. Un lavoro importante e anche faticoso.
Con il torchio pieno si deve far girare la testa, avvitandola verso il basso, sino a che il coperchio non schiacci i primi grappoli d’uva.
Poi si “da al torchio”. Due uomini muovono avanti e indietro la pesante asta in legno che serve a fare girare la corona dentata che alza e abbassa i saltarelli. Pressare l’uva non è facile, con il pinot nero che ha poca bagna e molte parti solide è ancora più difficile. Occorre professionalità e aggiungo molta fatica.
C’è sempre il rischio di formare “sacche di mosto” che restano prigioniere dell’uva senza poter uscire. La vinaccia allora resta umida.
Di norma si smette di “dare al torchio” dopo mezz’ora, oppure quando la vinaccia inizia a fuoriuscire tra le pareti dalla gabbia in legno. Allora si tira su il coperchio e con i tridenti si rivoltano bene i grappoli pigiati, cercando di smuoverne il maggior numero possibile. Di norma si dà al torchio 3- 4 volte per ottenere il mosto denominato “fiore”.
Infine si spostano i grappoli quasi esauriti in torchi piccoli, rotondi e verticali, tipo Bazzi o Salvaneschi. Si otterranno ancora piccole frazioni di mosto, chiamate “di prima o seconda stretta”. Essendo di qualità inferiore, di norma non si mescolano mai con il vino fiore, ma vanno a massa con gli altri torchiati prodotti in cantina.
La coperta del Pinot “fiore” – Broni, Valle Scuropasso, – 1930
Il Pinot “fiore” si invia subito ai vasconi in cemento per la decantazione. In realtà è una vera e propria pulizia del mosto.
Si aggiungono per prima cosa i chiarificanti e il metabisolfito di potassio. In genere la solforazione avviene sul mosto in uscita dai torchi. Dosaggi: da 6 a 12 gr x hl di mosto grezzo.
La polvere bianca di metabisolfito si scioglie in un po’ di acqua e si aggiunge al mosto rimescolando con un apposito attrezzo di legno con al fondo un asse rettangolare. I cantinieri lo chiamano “spatela”.
Come chiarificanti si usano gelatina animale e tannino. (1)
I fogli di gelatina, sono della tedesca Paul Hoppe, una qualificata ditta di Amburgo, alcuni usano anche la colla di pesce Salianky, ottenuta dalla vescica natatoria dello storione. Secondo anziani enologi era il miglior chiarificante in assoluto. La colla si usa sempre in sinergia con il tannino all’etere fornito dalla ditta Lepetit di Garessio. Sempre nel rapporto 8 tannino/10 gelatina.
Quando nella partita di uva in lavorazione sono presenti molti pinot neri è necessario usare carbone decolorante. Dosaggi: da 50 a 100 gr. per hl, ma per torchiati o mosti molto colorati i valori sono maggiori.
La pulizia del mosto
Nella vinificazione dei pinot è di estrema importanza la formazione e la successiva separazione del sopra chiaro dal deposito feccioso formatosi in seguito alla floculazione creata dai chiarificanti aggiunti.
Un’operazione importante e difficile. È un attimo, è una lotta di nervi, occorre guardare il mosto e capire il momento giusto. Prima no! Il mosto è ancora torbido, ricco di solidi sospesi, Dopo? Beh! Fermenta tutto, addio Pinot e reddito. Se erri, comprometti, in modo irreversibile, la qualità del futuro vino. Un lavoro dove conta l’esperienza acquisita, dai cantinieri, solo quella. (2)
In genere per detta operazione si usano due vaschette in cemento di forma rettangolare e sovrapposte; in quella superiore avviene la chiarifica, in quella inferiore si travasa il sopra chiaro, operazione chiamata in gergo “il salto” dai cantinieri. Occorre controllare bene la vaschetta superiore, non devono notarsi piccole bollicine, oppure particelle che risalgono in superficie.
Dopo un tempo variabile – in genere 6-8 ore – si procede alla separazione delle fecce dal sopra chiaro. La quantità di feccia formatasi è in funzione di molte variabili, in primis la sanità dell’uva, la presenza di botritis, l’andamento generale dell’annata, il metodo di torchiatura. Ma sono importanti anche la temperatura del mosto e una buona acidità fissa. Un dato medio può essere dal 10 al 15 % di feccia non compatta, riferita al volume iniziale del mosto grezzo.
Per il travaso si usano piccole gomme che vengono inserite gradualmente, a pescare sempre nella parte limpida. Si aspira a bocca. Non si pesca mai nella feccia e soprattutto occorre evitare assolutamente qualsiasi inizio di fermentazione durante dette operazioni.
Note
1 – Negli anni ‘70 del secolo scorso per la chiarifica dei mosti erano stati abbandonati tannino e gelatina, sostituiti dal sol di silice, dalle bentoniti o dalle albumine. Ma a partire dai primi anni del nuovo millennio sono tornati ad essere utilizzati per maggior rispetto della struttura del mosto. Così pare! Eppur c’era chi giurava che il tannino, aggiunto al mosto, provocasse effetti ossidanti. Cicli e ricicli storici della nostra enologia.
2 – Preciso che in quegli anni non esisteva nessuna tecnologia a supporto: né frigo, né flottatori, né enzimi. C’era soltanto l’abilità del cantiniere. Se qualcosa non funzionava era un vero danno economico.