Tradizioni e usanze del territorio Cuneese, i ricordi e la memoria dei protagonisti del mondo rurale.
Sono una ricchezza per tutti. Vanno innanzitutto conservate, mai disperse, peggio dimenticate e poi valorizzate in modo adeguato.
Per un doveroso rispetto del passato, per vivere meglio il presente, per vincere le sfide per il futuro.
Il vino nella pianura Cuneese
La presenza della vite è sempre stata marginale nel contesto agricolo della pianura Cuneese, mentre il consumo di vino ha sempre caratterizzato l’alimentazione quotidiana e la socialità dei suoi abitanti.
Ecco alcune testimonianze:
I miei avevano solo un piccolo filare di viti, ma ricordo alcune grandi cascine con più filari, in genere erano posti dietro il fabbricato. Erano di clinton nero, un’uva americana che non necessitava di verderame e di zolfo, ma c’era pure dell’uva baco.
Alcuni avevano viti allevate a piccole pergole dette “topia”, si trovava isabella, chiamata comunemente uva fragola, o altre uve da tavola bianche tra cui la luglienga.
Prima della diffusione delle “viti americane“, chiamate anche ibridi produttori diretti, intorno al 1880-1890, erano coltivati filari di dolcetto, neiretta, freisa, pelaverga, avarengh, tinturiet.
La testimonianza evidenzia comunque il preciso ruolo della vite nel contesto agricolo Cuneese.
Precisiamo che a partire dal sec. XIII nel Cuneese-anche in zone pianeggianti, erano diffusi quei vitigni che hanno dominato la viticoltura piemontese nel medioevo: “Nibiol, muscatellum, dozzetti, fresarum, malvaxie, neirani”. Si trattava di nebbiolo, moscato, dolcetto, freisa, malvasia e neirani.
L’arrivo delle malattie dall’America ridusse comunque la superficie del vigneto soprattutto in zone marginali come l’Alta Langa e la pianura Cuneese. La conseguenza fu un forte incremento del mercato delle uve a partire dai primi anni del secolo XX.
Molte famiglie rurali cuneesi producevano un po’ il vino in casa, acquistando le uve Dolcetto sul mercato di Fossano o Savigliano, in ceste in castagno da 33 kg, le cosiddette “gorbe”.
Chi pigiava molta uva preferiva rifornirsi nell’albese direttamente dai viticoltori, esempio a Dogliani o Diano.
Che uve acquistavano? Nell’albese solo dolcetto o barbera, uvaggi se in altre zone. Anziani ricordano ancora la traina con le mule per superare la salita di Roreto di Cherasco; il tiro era affittato a tutti i trasportatori da una grande cascina fuori Pollenzo.
Altri in tempi più recenti ricordano invece un camioncino che caricava uve nell’albese per diversi agricoltori, di mattino ritirava i vuoti, in genere “bonse” e piccoli” arbi “e ritornava nei paesi tra Carmagnola e Moretta carico di ottima uva. Il peso si faceva sempre dal fornitore.
Alcune testimonianze confermano che la vinificazione era condotta con molta premura.
Mio padre il vino lo ha sempre fatto in cascina, acquistava le uve al Gallo d’Alba e poi le pigiavamo con i piedi direttamente nell’arbi. Terminato, con un secchio e un tridente, mettevamo tutto in bonse da 14 brente per la fermentazione. Per lavare le bonse usavamo le foglie di salice.
In anni di carenza di colore e grado – es. il 1972 – si acquistava a Carmagnola o Savigliano del mosto da tagliare con quello in fermentazione.
I nomi ricordati sono Brindisi, Gallipoli, Manduria, era semplicemente mosto di uva negromaro a 15 gradi e ricco di colore, detto comunemente “Meridionale”. Una pratica diffusa in tutto il Piemonte da oltre mezzo secolo.
Le piccole cascine non possedevano, in genere, né la pigiatrice, né il torchio. Ma c’era chi provvedeva (vedi I racconti del pane e del vino).
Le operazioni di vinificazione effettuate nelle cascine di pianura erano dettate da antiche tradizioni, la più importante si chiamava “steccare”.
Si trattava della vinificazione a cappello sommerso. Ecco una testimonianza:
L’uva diraspata si metteva nella botte o nel tino, la fermentazione avveniva regolarmente, ad un certo punto si steccava. Si stendevano, orizzontali, assi di legno di pioppo sulle vinacce a distanza di pochi centimetri, sopra si stendevano altri assi posti trasversalmente a maggiore distanza; in seguito con paletti quadrati si puntellava l’intera struttura al soffitto del piccolo tino. In tal modo il reticolo di legno impediva alla vinaccia di salire.
A questo punto si colmava il tino con lo stesso vino preso ovviamente da un altro recipiente. Si lasciava il mosto a fermentare così per tre-quattro settimane; in realtà era una macerazione tra vino e vinaccia con contatto prolungato, ma statico.
Intorno a dicembre si toglievano le assi e si svinava.
Il vino era limpido con buona struttura per massima estrazione di parti solide di uva, il colore era stabile, anche se inizialmente era leggermente scarico.
Ma il vero motivo era di ordine economico: la fase di svinatura cadeva proprio nei giorni della semina del grano, operazione troppo importante per essere rimandata.
L’operazione di steccatura allungava i tempi di lavoro in cantina permettendo la presenza nei campi per la semina.
La picheta, il vino quotidiano
Un’altra usanza presente nella pianura Cuneese, era la produzione della cosiddetta “picheta”, forma dialettale piemontese derivata dal francese “piquette”. In alcuni paesi verso Racconigi -Moretta era chiamata anche “puska”.
In tutto il Piemonte la “picheta” era il vino quotidiano di tutti i giorni delle classi rurali povere in particolare: affittavoli, mezzadri, salariati. Era una bevanda importante, sollievo per la calura e la sete nei grandi momenti di fatica rurale.
Era fatta con l’aggiunta d’acqua per sfruttare tutta la vinaccia a differenza del “vinot” , fatto solo con uve di seconda qualità.
La produzione della “picheta” aveva anche i suoi riti e le sue regole: ecco la ricetta come è stata tramandata da mio suocero Giuseppe Brovia. Il riferimento è agli anni 1900-1930.
Nel torchio a mano la vinaccia non era mai esaurita, era disfatta e messa nella bonsa. Si aggiungeva acqua tiepida (sui 35 gradi n.d.r. ), uva tintura, ovvero molto colorata (neirani in genere n.d.r.).
Lo zucchero? No! Costava troppo; si teneva coperta la bonsa, si follava, si torchiava. Nella stessa bonsa si mettevano i “rap di San Martin” (grappoli piccoli a maturazione tardiva n.d.r.), altri uvaggi di seconda qualità, si faceva fermentare, si torchiava.
Ecco la “picheta” a otto gradi.
Sulla effettiva durata della “picheta” le testimonianze sono discordi, chiaramente se conteneva solo otto gradi alcol, in quanto lo zucchero-ammesso ai fini famigliari-costava troppo, non aveva gradazione sufficiente per durare oltre l’estate. Di fatto era consumata entro la primavera.
Il vino è sempre stato una bevanda con precisi riferimenti sociali: nelle grandi cascine di Langa erano in uso frequente queste usanze durante il servizio in tavola.
Alla famiglia del proprietario si riservano bottiglie vecchie di uno-due anni di nebbiolo, agli affittavoli o ai rari mezzadri dolcetto o barbera d’annata, prelevato dalla damigiana, ai servi o salariati avventizi la picheta , un po’ “brusca” tirata direttamente dalla “ bonsa”.
Ma nella pianura Cuneese non erano in uso, perlomeno pare che non ci fossero differenze cosi rigide in funzione della classe sociale di appartenenza.
Ma le testimonianze sono contradditorie. Ricordava in proposito un anziano di Langa:
Mio padre era andato a Carmagnola a tagliare il grano, ma davano solo acqua e aceto.
La primavera
In primavera, in molte cascine si imbottigliava il vino nuovo ottenuto.
Si attendeva la luna piena di Pasqua, si attendeva un giorno sereno e senza vento, si lavavano le bottiglie nere e pesanti.
I tappi detti “brut ma bon”non erano truccati (colmatati ndr) e si trattavamo con olio di paraffina.
Il vino era conservato nelle apposite cantine, luoghi freschi senza luce, silenziosi; il vino corrente era bevuto nell’anno, ma le bottiglie di prestigio erano conservate per molti anni.
La memoria orale
Stefano Audisio
Loc. Castiglione-Cavallermaggiore
Nel 1908 mio padre iniziò a costruire la cascina, a Cavallermaggiore, in località Castiglione.
Prima era affittuario dai conti di San Perrone. Produceva foraggio per i 12 capi della stalla; erano tutte mucche da latte. Coltivava anche il grano e poco mais. Erano in tutto 16 giornate piemontesi. In famiglia erano in 5, con quattro sorelle. In cascina c’era il cortile, il fienile, la letamaia e il pollaio con la bassa corte.
Come procedeva per arare il campo? Partivano dalla stalla due mucche unite da un giogo. Le mucche trainavano un piccolo carro con il fieno e l’acqua per tutto il giorno. Ma se c’era una sorgente nel campo era meglio.
Nel 1920 il nostro aratro aveva due ruote e il vomere regolabile in altezza. Si iniziava all’alba. Si arava profondo 15 cm, il terreno era soffice e sabbioso, i buoi non faticavano troppo. Arrivati in cima al solco, gli animali giravano e tornavano indietro passando nel solco fatto prima.
Una sola persona stava accanto all’aratro. Non si usava museruola. Di fatto la mucca guidava l’aratro. Nei nostri terreni sciolti, una coppia di buoi riusciva ad arare nell’arco di un giorno, la superficie di 3810 metri quadri, considerata per consuetudine la misura di una giornata piemontese.
A mezzogiorno si faceva una sosta. Terminata l’aratura si spianava con un attrezzo fatto da un pezzo di legno con due traversine. In seguito si usava l’erpice per preparare il terreno per la semina.
Il grano si seminava a metà ottobre. Mio padre seminava a prose larghe un metro, delimitate grazie a un aratro piccolo con doppio vomere. La semente si buttava a spaglio.
La mietitura
Negli anni venti si iniziava a lavorare al sorgere del sole. Si usava la falce messoira. Si facevano piccoli covoni. Il grano non era ancora completamente secco, pertanto si lasciva nel campo qualche giorno, quindi si legava con steli dello stesso cereale.
Si facevano i ……….. A Cavallermaggiore erano fatti così: un pezzo di stoffa per terra, poi quattro covoni a croce. Quattro strati sovrapposti, con un altri covoni sistemati sopra, a creare il cappello. In caso di pioggia il grano non doveva bagnarsi.
Terminata la mietitura si poteva spigolare, ma non tutti lasciavano entrare nel campo. Dal paese qualche famiglia povera veniva lo stesso. Con la raccolta a mano qualche spiga restava nel campo.
Ricordo una famiglia raccogliere nove sacchi di spighe. Avevano il pane garantito per un po’ di tempo.
La trebbiatura
La macchina arrivava da Cavallermaggiore, Era una Saima. Era mossa da una macchina a vapore collegata da una grossa cinghia.
Per trebbiare, i covoni erano stati portati in cascina dal campo e impilati a conoa formare il …………… Erano alzati sempre vicini, con la trebbiatrice in mezzo. Trebbiare era un lavoro complesso.
Quattro uomini veloci toglievano con i tridenti i covoni. Due donne li slegavano. Sopra la trebbiatrice c’erano gli uomini che spingevano i covoni dentro gli ingranaggi. Era un lavoro non facile e delicato.
Si iniziava a trebbiare alle tre del mattino. Alle 8 colazione, poi sino alle 12. Il pranzo era ricco. Si ammazzava il pollo e si faceva un po’ di festa.
Si riprendeva sino alle 16,30. Altra sosta, merenda con salame, poi si riprendeva sino a sera. Verso le 21 si andava a cena.
La paglia che usciva dalla macchina sparsa andava in un elevatore e da qui nel pagliaio. Altre persone lo sistemavano. C’erano 20 persone intorno alla trebbiatrice. Dei giovani portavano acqua e anche vino a tutti. Il grano allora era ben pagato: sulle 6000 lire il quintale.
La consegna del grano all’ammasso
Durante la guerra c’erano liti per la consegna del grano all’ammasso. Era obbligatoria, ma ne rimaneva poco per la famiglia. Ognuno si aggiustava.
Un vicino aveva costruito un cunicolo sotto la trebbiatrice. Delle fascine coprivano il tutto. Nascondeva i sacchi di grano, con enormi rischi. Poi li rivendeva a borsa nera.
Uno scambio frequente era con i liguri: olio, in cambio di farina bianca. Mio padre riuscì, se ben ricordo, a nascondere qualche covone, facendo un buco qui in cascina sotto il covo. Era ben poca cosa.
* * *
Pane e il vino nella pianura Cuneese. Frammenti di memoria.
Indice
- Brevi cenni storici
- Il pane
- Il vino nella pianura Cuneese
- La memoria orale
- I racconti del pane e del vino
Si ringraziano Stefano Audisio, Pier Giacomo Stassi, Giovanni Gullino e Osvaldo Guglielmo.
Testi di Lorenzo Tablino.
Tutti i diritti riservati – riproduzione vietata.
Per quanto riguarda i nomi dialettali il riferimento è: El new Gribaud – Ediz A l’ansegna dij brandè. Editip 1983.
Lavoro commissionato dalla Federazione Provinciale Coltivatori Diretti di Cuneo – Sezione di Savigliano.