Umberto Ambrois -Tenuta Carretta –Piobesi – 1967
Umberto Ambrois, enologo, ha lavorato in alcune cantine ed è stato insegnante alla scuola enologica di Alba. Da decenni è un appassionato studioso di viticoltura ed enologia del Roero. Ha pubblicato “Roero-Vite e Vino” nel 1978 per le edizioni Gribaudo, premio internazionale O.I.V.1978 (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino).
Avevo una buona esperienza di vini bianchi maturata nelle cantine sociali del Lazio legati al Centro Studi Enologici di Roma dall’enotecnico Ezio Rivella.
Mi ero diplomato nel 1957, dopo alcuni anni di esperienza in Lazio; avendo la fidanzata in Alba ritornai in zona, trovando lavoro quale direttore della Tenuta Carretta di Piobesi, di proprietà della famiglia Veglia di Torino. Allora nel Roero erano coltivate sopratutto uve a bacca nera.
Le uve bianche erano ristrette alla zona di Corneliano – Piobesi per la favorita e Canale e Cisterna per l’arneis, ma in quantità molto limitata, precisò.
Siccome la produzione di vini albesi non comprendeva vini bianchi, a parte Moscato e vini base spumante, ritenni opportuno tentare un esperimento per produrre un vino bianco d’Alba.
Il problema era la materia prima. Trovò con difficoltà piccoli carichi di arneis e favorita a Montaldo Roero e zone vicine raccolte in gerbe di castagna: otto quintali d’uva. Fu tra le prime vinificazioni di Arneis in zona.
Utilizzò un torchio verticale meccanico con gabbie di legno e solo il mosto “superiore”, con una resa veramente bassa: 4,5 hl di mosto. La fermentazione avvenne regolarmente, con l’ausilio di soli fermenti naturali e il mosto in 8 giorni andò a secco. A questo punto, dopo la separazione delle fecce grossolane, aggiunse una piccola dose di anidride solforosa.
La sedimentazione, per modo di dire, avvenne naturalmente, quindi il prodotto fu travasato in una piccola vasca di cemento.
Avevo provveduto a rivestirla esternamente con uno strato di polistirolo a scopo isolante. All’interno la verniciai con una nuova vernice protettiva fornitami dall’amico Marco Biglino.
Il vino aveva una buona acidità, d’altra parte il concetto di fermentazione malolattica allora non era conosciuto e soprattutto seguito. Il grado alcolico era ottimo: 12° naturali.
Nell’aprile si pose il problema di imbottigliarlo. A una prima chiarificazione a base di bentonite e gelatina, seguì la refrigerazione effettuata empiricamente con l’ausilio di un piccolo frigo affittato presso l’emporio Lurgo in Alba.
Utilizzai anche caseinato di potassio per eliminare un po’ di metalli dal vino e anche per facilitare la formazione di microcristalli.
Dopo 10 giorni, filtrò il vino dapprima con farina fossile e in seguito con cartoni K 10. Il vino era limpidissimo, ma non ancora stabile.
Aggiunsi vitamina C e metabisolfito di potassio per avere una quantità di solforosa libera sufficiente per evitare ossidazioni.
Non c’era nessun dato sull’evoluzione ossido riduttiva dell’Arneis. L’esperienza del Lazio con l’amico Ezio Rivella è stata fondamentale.
Per l’imbottigliamento utilizzò una bottiglia particolare, studiata copiando un oggetto esposto da un benzinaio. La forma: tra champagne e regione del Reno. Per i tappi usò sughero naturale.
Disegnai l’etichetta, riflette l’epoca: caratteri gotici alti con il logo in rosso “tre ruote”.
Sul collarino riportava: bianco secco-riserva di fattoria. La cosa più interessante: la capsula fatta con foglie di mais. Un lavoro manuale cui contribuirono le dipendenti della tenuta.
Usammo foglie di mais ottenute sfogliando le pannocchie.
Si legavano le foglie sul collo della bottiglia, si rivoltavano, si piegavano, si faceva la capsula. Un piombino sigillava il tutto. La confezione piacque e fu certamente originale.
Un altro problema riguardo a questo vino fu la stabilità biologica. Utilizzò un pastorizzatore a immersione a cassoni della ditta Pama. Un impianto enorme (4 x 2 mt.). S’inserivano dei plateau metallici con 100 bottiglie. Mediante rotazione finivano nel bagno d’acqua calda per circa 30 minuti. Il ciclo completo durava 65 minuti.
La temperatura di pastorizzazione in quell’epoca era normale. Oggi ovviamente è un parametro fuoricorso: ovvero 65°.
Dovemmo risolvere il problema del giusto livello di riempimento, affinché il tappo non saltasse; non avevamo parametri precisi.
Valutò a occhio tenendo il livello basso, ma non troppo evitando di trovare bottiglie con il tappo fuoriuscito e quindi piene di acqua bollente. Regolare la riempitrice non era facile per nulla.
Spesso le operaie sboccavano a mano la bottiglia troppo piena, onde andare a livello. Utilizzarono scatole di cartone ondulato con alveare.
II nuovo vino “Bianco d’Alba” trovò qualche riscontro sul piano commerciale e lo presentarono alla fiera di Milano del 1968. Con buoni consensi, ma erano solamente 600 bottiglie: troppo poche per creare un mercato.
Lo stesso vino fu presentato in Germania nel 1968. Era la prima volta che un vino bianco secco dell’albese veniva promosso all’estero.
Nel ’69 vinificò un po’ di favorita in purezza. 12 q.li di uva che trovò nella zona tra Conegliano- Piobesi e qualche piccolo carico a Priocca. Ma anche questo vino ebbe difficoltà a essere imposto sul mercato. Pertanto, nel 1970 lasciò la cantina Carretta e ritornò a fare il consulente.
Nel 1963 aveva vinto il concorso nazionale per insegnanti. Iniziò nel 1971 un nuovo lavoro.