Si racconta di Pio Cesare che quando incontrava al Sabato al mercato di Alba, qualche amico enologo, lo invitasse nella sua cantina per assaggiare il Barolo. A fronte di giudizi particolarmente lusinghieri su qualche botte, allargando le braccia esclamava: E’di Serralunga! Di fatto per consolidata tradizione nei celebri crus di Serralunga: Marenca, Rivette, Vigna Rionda, Lazzarito,Gabutti, Prapò,Parafada, Ornato, ect.. nascono i grandi Barolo ricchi di gradazione alcolica, di sostanze estrattive, di colore, pieni , rotondi e robusti, atti ad una lunga conservazione, prima in botte e quindi in bottiglia.
” Quando portavamo le uve a Fontanafredda il direttore Bressano le pagava due lire in più degli altri comuni” (1) così ricorda un viticoltore della frazione Gabutti, in tante vendemmie negli anni quaranta, poche parole per un grande significato: i nebbioli di queste colline sono sempre stati contesi da commercianti e mediatori, sovente con la sola arma possibile, il rialzo del prezzo. La vocazione qualitativa di Serralunga- antica Serrelonge -è stata più volte confermata da insigni studiosi sin dal secolo scorso: Lorenzo Fantini con la sua monografia sulla viticoltura ed enologia sulla provincia di Cuneo, Renato Ratti che produsse la prima carta delle zone pregiate del Barolo, per terminare con l’Atlante delle grande vigne di Langa, curato dall’ Arci-Gola Slow-Food, ben trentacinque crus sono elencati, ad ulteriore conferma dell’elevata potenzialità dei vigneti. A Serralunga la viticoltura è stata nei secoli l’attività principale per i suoi abitanti, interessante a proposito la documentazione storica( 2). Gli statuti originali del comune di Serralunga del feudo dei Falletti di Barolo, risalenti alla prima metà del secolo quindicesimo riportano: ” E stato stabilito ed ordinato che nessuna persona osi o presuma far tagliare delle viti nei pergolati o nelle vigne di Serralunga per animo cattivo sotto la pena di lire venticinque”. La storia del vino Barolo nel secolo scorso si confonde con quella del comune di Serralunga. Da dove proveniva il vino contenuto nei 325 fusti che la marchesa di Barolo Giulia Falletti Colbert – secondo la tradizione orale- inviò all’ inizio dell’ottocento a Carlo Alberto Re di Sardegna? Dalle cantine del castello di Barolo certamente, ma la marchesa possedeva anche 257 ettari di vigneti a Serralunga. In paese all’ inizio del secolo c’era un apposito stabilimento per la cura dell’uva. Sotto la guida di un medico venivano somministrati grappoli di dolcetto ” ricchi di ferro , calce, manganese, potassio, asssimilabili pertanto alle migliori acque diuretiche”. Nel 1921 alla cascinotta di Fontanafredda,vennero effettuate per la zona di Alba ,ricerche sulla presenza della fillossera ed i primi tentativi di reimpianto con viti americane. Nel 1947 alla cascina Francia ai confini tra Serralunga e Roddino,vennero sperimentati in Piemonte i primi razzi antigrandine. Una data recente,significativa,per la storia dell’ enologia italiana. E’ il 1964; s’installa il primo impianto d’acciaio inossidabile per i vini. E’a Serralunga,nelle cantine Fontanafredda.
Segnaliamo ancora che furono i viticoltori di Serralunga gli ultimi ad abbandonare la sottovarietà di nebbiolo Michet poco produttiva, ma di eccellente qualità. Negli anni settanta l’andamento dei costi di produzione investì anche l’agricoltura,molti contadini, a malincuore, furono costretti ad utilizzare per i reimpianti la sottovarietà Lampia di maggior resa produttiva. La storia di Serralunga è ricca di avvenimenti, soprattutto per la presenza sul suo territorio di uomini illustri la cui opera appassionata ha lasciato notevoli tracce nell’epopea del grande Barolo.
Iniziamo da Vittorio Emanuele II primo re d’Italia , nel 1860 acquista da un certo Ruggeri e da altri piccoli proprietari, sono “cinquanta ettari di ripa, bosco e vigna nel comune di Serralunga, in località Fontana Fredda”, ne fa dono ai suoi figli naturali Vittoria ed Emanuele Guerrieri Mirafiore, non senza averli prima iscritti nei beni del patrimonio privato del Re. Nel 1878 Emanuele di Mirafiori fonda la casa omonima ed inizia a produrre Barolo, il merito della valorizzazione commerciale di questo vino è in gran parte suo.” Più tardi – intorno al 1890 entrò in gara anche il conte di Mirafiore che produceva Barolo nella sua tenuta di Fontanafredda e che, dalla sfera riservata in cui si era tenuto sino allora come vino di lusso lo portò sul mercato comune dandogli molto smercio commerciale”(3). Giuseppe Cappellano, geniale farmacista,famoso per aver inventato il Barolo chinato, grande cacciatore che non disdegnava tra una battuta ed l’altra di controllare e magari acquistare partite di ottima uva. Ricordiamo anche Virginia Ferrero imprenditrice antelitteram, già negli anni venti possedeva una cantina in frazione Baudana ed utilizzava tecnologie moderne, Giuseppe Bressano enologo chiamato a dirigere nel 193I l’azienda vinicola Fontanafredda dopo il passaggio della società Mirafiore Vini Italiani al Monte dei paschi di Siena. Inizierà un poderoso lavoro di ricostituzione post-filosserica per tutti i settanta ettari della tenuta.
Nella vendemmia 1964, vengono vinificate in purezza le uve di alcuni vigneti di Serralunga, mentre nel 1992- anche alla luce dei nuovi orientamenti contenuti nelle nuova legge 164 sulla valorizzazione delle sottozone comunali di particolare pregio – verrà immessa sul mercato la prima etichetta con la dizione Barolo di Serralunga.
BAROLO: FRAMMENTI DI MEMORIA
Il Barolo e’ un vino tutto particolare, non solo per i profumi e per i sapori percepiti.
Più lo assaggi, più ti senti coinvolto, vuoi conoscerlo in tutti i suoi aspetti, cerchi sempre di scoprire e approfondire i suoi contorni e i suoi dintorni.
Poco alla volta ti rendi conto che il Barolo è un vino unico.
A ruota libera ecco alcuni frammenti di memoria sul grande Barolo…
Quel Goudron scomparso….
Un assaggio di Barolo mi resterà sempre impresso.
Per il luogo, per le persone presenti, perché non si è più ripetuto.
Allora ero un giovane enologo da pochi mesi assunto a Fontanafreddda.
C’era il dott. Giuseppe Crestodina, il compianto direttore tecnico di Fontanafredda dal 1961 al 1973.
Erano presenti anche due grandi barolisti: in quell’estate di trentaquattro anni fa, nella piccola sala di degustazione erano arrivati Bartolo Mascarello e Battista Rinaldi.
Ricordo che il dottor Crestodina li ascoltò con profondo rispetto.
Rimasi colpito dallo stile e dalla proprietà di linguaggio con cui si parlava di Barolo, ma la mia testa era altrove…
In quella calda estate del ’ 70, nella provincialissima Alba, si era ancora in pieno clima “sessantottino” e proprio in quei giorni la Ferrero veniva occupata dalle maestranze.
Assaggiammo dei Barolo di eccellente livello e di annate prestigiose: Barolo ‘61 e ‘64 Pio Cesare e un Fontanafredda ’61 – selezione Cavalieri del Tartufo.
“Questo è il goudron” disse Crestodina mentre Rinaldi e Bartolo assentivano sorridendo.
“Guardate il colore, sembrano riflessi senape”.
E sottolineò “Senta il profumo Tablino, non le viene in mente la strada asfaltata con il catrame caldo mentre passa il rullo compressore? ”, altri barolisti dicono liquirizia nera, ricordate i “bottoni da prete”, oppure violetta, mammola, questo, solo questo è il Barolo vecchio”.
Peccato! Come detto ero sovrappensiero e prestai poca attenzione alle parole di quei tre saggi.
Due sere dopo ci fu la mitica partita di calcio Italia-Germania…gli ultimi minuti dei supplementari con i goal di Riva, Rivera e…..quel 4 a 3 da cardiopalmo
Ma quei meravigliosi profumi dei Barolo non li ho mai dimenticati.
Il suo naso è nel suo dna!
Chi è il miglior assaggiatore di Barolo dell’albese ? La risposta è univoca: Marco Ferrero.
Il Barolo per lui non ha segreti: anni fa, con molta facilità, scoprì un leggerissimo difetto dopo che a Fontanafredda avevamo discusso per una settimana: Si? No? Ma? Forse?
Per lui assaggio vuol dire percezione sensoriale immediata e fortissima, legata ad un grande dono di natura e ovviamente affinata da una lunga esperienza professionale.
“Già studente alla scuola enologica riconoscevo i profumi durante le lezioni del prof. Cavallotto, ricordo i primi riferimenti, .. odore di cera sul legno vecchio… odore di brodo vegetale …
Mi piaceva degustare, mi incuriosiva e gratificava, per questi e altri motivi ho sempre cercato di approfondire sul piano professionale”.
In realtà Marco Ferrero non solo odora, non solo percepisce, ma colloca: risponde con un lessico che cataloga con molta precisione profumi, odori e aromi: rosa, cannella, viola, menta.
È il pregio dei grandi profumieri di Grasse, nonché la tecnica dei grandi assaggiatori di vino!
Come non pensare a Leglise, Seagrist, Noble…
È il suo dna, null’altro, è percettivo in modo incredibile, in particolare “sul tappo.. lo riconoscerei a molti metri, poi volatile, ridotto“… in effetti, nei difetti del vino, è fortissimo.
”Mia madre mi ha abituato sin da piccolo, odoro tutto,anche nel quotidiano.
Un esempio: le gite in montagna, ottime occasioni per sentire i profumi dei fiori, delle erbe”
Alla compagnia dei vignaioli di La Morra ancora oggi raccontano una storia.
Una storia strana che sfuma nella leggenda, perché è difficile crederci, ma è successo.
Sentiamola…
Venti anni fa, un gruppo di appassionati assaggia, sul tavolo nove Barolo, tutti anonimi; c’è Pol Farinasso, noto venditore, ci sono anche dei piccoli produttori.
Marco Ferrero assaggia, indica un Barolo, “Il profumo mi ricorda la polvere della strada che da La Morra scende verso Cerequio”.
Nessuno ci crede, qualcuno ironizza pure.
Quel Barolo veniva proprio dalla borgata Cerequio di La Morra…
Tradizioni del Barolo a Serralunga
Quando Pio Cesare, negli anni ’50 incontrava al mercato di Alba al sabato mattino, qualche amico enologo lo invitava nella sua cantina per assaggiare il Barolo.
A fronte di giudizi particolarmente lusinghieri su qualche botte, allargando le braccia esclamava contento: “È di Serralunga”!
Quale appassionato di Barolo non conosce i celebri cru di Serralunga: Lazzarito, Gabutti, Prapò, Parafada, Ornato, Marenga, Rivette, Vigna Rionda?
Danno origine a Barolo ricchi di gradazione alcolica, di sostanze estrattive, di colore, pieni, rotondi e robusti, di ottima longevità sia in botte, che in bottiglia.
Forse proprio il Barolo talmente buono per riempire le 325 “carrà”, che la marchesa di Barolo Giulia Falletti Colbert – secondo la tradizione orale- inviò all’ inizio del’ottocento a Carlo Alberto Re di Sardegna?
La marchesa –come è noto – possedeva anche 257 ettari di vigneti a Serralunga.
Lo sanno i mediatori, lo sanno i produttori: di fatto i nebbioli di queste colline sono sempre stati contesi da commercianti e mediatori, sovente con la sola arma possibile del rialzo del prezzo.
“Quando portavamo le uve a Fontanafredda il direttore Bressano le pagava due lire in più degli altri comuni” così ricorda un viticoltore della frazione Gabutti, in tante vendemmie negli anni quaranta; poche parole per tanti significati.
Sembra che, nella vendemmia 1996, una partita di uva nebbiolo di Serralunga d’Alba fraz.Baudana sia stata pagata da un acquirente di Monforte d’Alba ben 90.000 lire il miriagrammo.
Interessante rilevare che furono i viticoltori di Serralunga gli ultimi ad abbandonare la sottovarietà di nebbiolo” Michet” poco produttiva, ma di eccellente qualità.
Negli anni settanta l’andamento dei costi di produzione investì anche l’agricoltura, molti contadini, a malincuore, furono costretti ad utilizzare per i reimpianti la sottovarietà Lampia di maggior resa produttiva.
Anche la lavorazione del Barolo nelle cantine di Serralunga d’Alba ha qualcosa di particolare: antiche pratiche enologiche, metodi particolari dei quali si è perduta la memoria
Così hanno confermato testimonianze raccolte in loco (frazione Baudana 1992)
“A persia ” termine dialettale quanto mai esplicito.
Quando si lavano le botti si fa liscivia con foglie di pesco immerse in acqua calda,soprattutto all’inizio della vendemmia quando occorre lavare i garoch e altro rimasti un anno vuoti.
Quando si puntella il cappello di vinacce, durante la fermentazione con cappello sommerso, si usano stecche di pesco o ciliegio, qualcuno immerge anche nel mosto piccoli rami delle piante medesime, qualcun altro ha ancora piccoli fusti con doghe in pesco.
“I peschi, nelle vigne sono sempre più rari, allora si usano anche rametti di gaggia”. L’utilizzo di questi rami è giustificato dal particolare sapore ammandorlato o retrogusto piacevolmente amarognolo che prende con il tempo il Barolo”.
Aggiungiamo che proprio a Serralunga d’Alba, ancor oggi sono ricordati da anziani, due metodi particolari di vinificazione dei nebbioli, ancora usati negli anni trenta-quaranta.
Ricordo che le dispense del prof G.Dell’Olio, preside della scuola enologica di Alba negli anni ‘50-’60 riportavano a titolo di curiosità detti metodi.
“Le uve – sane ed asciutte – si raccoglievano in grandi ceste in legno di castagno da 60 kg, si portavano in cantine interrate ove riposavano per alcuni giorni. Iniziava un processo fermentativo interno all’acino (una specie di macerazione carbonica, n.d.r.), infine si pigiava il tutto nella tina.
Facilmente comprensibili i vantaggi per la successiva fermentazione alcolica”
In altre cascine “si buttavano le uve nelle tine, non si pigiava, si aspettava qualche giorno, il mosto al fondo della tina iniziava a fermentare, solo allora si pigiava con i piedi”.
VINIFICAZIONE DI ALTRI TEMPI
Cappello sommerso. Alla fine degli anni sessanta molti cantinieri erano in grado di steccare una vasca di nebbiolo.
Oggi? Non saprei.
Descrivo il lavoro in tutti i particolari, l’ho visto fare da Pino, Settimo, Vigio, i grandi cantinieri di Fontanafredda.
Era la grande vendemmia del 1971
L’uva nebbiolo, diraspata, si metteva nel tino, la fermentazione iniziava regolarmente.
Dopo qualche giorno, con il cappello di vinaccia formato e ben compatto, si steccava con assi di legno di pioppo.
Era un lavoro difficile e pericoloso per la presenza di gas.
Si stendevano assi orizzontali sulle vinacce a distanza di pochi cm, sopra si stendevano altri assi più grandi posti trasversalmente a maggiore distanza; in seguito con paletti quadrati, posti verticalmente,si puntellava l’intera struttura al soffitto del tino.
Per facilitare i movimenti del cantiniere nella vasca si abbassava leggermente il cappello di vinaccia togliendo poco mosto in fermentazione.
Occorreva invero sistemare bene i listelli su tutta al superficie del cappello, anche nei punti lontani dal boccaporto superiore.
In tal modo il reticolo di legno – se fatto bene – impediva alla vinaccia di salire.
A questo punto si colmava il tino con lo stesso vino, preso ovviamente da un altro recipiente.
Si lasciava il mosto a fermentare così per alcuni mesi.
In realtà era una macerazione tra vino e vinaccia con contatto prolungato ma statico.
In dicembre si toglievano le assi e si svinava.
Il vino era limpido con ottima struttura per massima estrazione delle parti solide dell’ uva, il colore era stabile anche se inizialmente presentava un colore leggermente scarico.
Detto sistema è ancora oggi in uso in alcune cantine del Barolo anche se con tempi più ridotti.
Uva intera
Sentiamo l’enot Gianfranco Torrengo e la sua breve, ma interessante esperienza di lavoro presso le cantine G.B.Burlotto di Verduno. Era il 1957.
“L’uva intera, raccolta nelle “gorbe“ in ceste, non si pigiava, bensì si buttava intera nel tino.
Si copriva con un telo.
Ogni due giorni si guardava dall’alto se la massa fermentava.
Al fondo del tino si formava ovviamente del mosto per schiacciamento degli acini dovuto al peso dell’uva sovrastante.
Ilo mosto in fermentazione creava un ambiente ricco di gas.
Si lasciava cosi per almeno un mese, ai primi di dicembre, si tirava il mosto –vino e, con tridenti, si toglieva l’uva ormai disfatta, che comunque veniva subito pigiata ed aggiunta alla massa in modo che il tutto completasse rapidamente la fermentazione.
Si svinava a Natale ed oltre.
Ritengo che questo particolare metodo di vinificazione donasse al Barolo profumi più complessi e intensi. “
Bottiglie vecchie di barolo
Una vecchia bottiglia di Barolo
Quante volte l’hai ammirata, quante volte hai faticato per averla.
Nei grandi vini, per tradizione, cerchi le vecchie bottiglie di grandi annate.
Speri anche nel massimo quando il vino sarà nel bicchiere.
Le vecchie bottiglie di Barolo, le trovi con fatica, spesso non sono in vendita, spesso vengono esposte nel negozio, sugli scaffali o magari in mostra nelle vetrine, affinché si possano ammirare, prendere in mano e con orgoglio mostrarle all’amico appassionato di vini, arrivato magari dalla Svizzera.
In genere sono bottiglie scure e pesanti, grandi nella baga, profonde nel fondo; spesso troviamo ancora bottiglie soffiate.
Le etichette sono sbiadite nei colori, un po’ rovinate ai bordi, più sottili per la lunga usura.
Le vecchie bottiglie sono stupende per quel che raccontano in prima persona: tante storie in cui scorre tutto il mondo del vino del vecchio Piemonte, con i suoi protagonisti, con i suoi successi e con le sue sconfitte.
Per questo in genere non si aprono, per un naturale, immediato rispetto.
Forse è un errore ? Chi lo può dire?
Anni fa ho potuto visitare la cantina di una vecchia bottiglieria in Torino.
Oggi sull’insegna spicca “Il Vinaio di Aldo Vada”, è in via Cibrario, una delle più importanti enoteche della città, ma il proprietario continua a chiamarla bottiglieria.
E di vecchia data, mi pare degli anni trenta.
E’ stato impressionante vedere un numero così elevato di vecchie bottiglie, veri gioielli di antiquariato enoico, raccolte in tanti anni e con tanta passione e qualche sacrificio economico.
Bottiglie rare, rarissime, formati speciali, ovvero grandi volumi sino al massimo dei 12,5 litri, il mitico quarto di brenta, che solo con la stima e l’amicizia del produttore riesci ad avere.
Un quarto di brenta di Monfortino 1955, 1958, 1961, annate eccezionali del re dei vini, chi le possiede mai?
Un elenco impressionante: Vignolo Lutati 1887- 1900, Mirafiore 1916, Calissano 1934, i miti del vecchio nobile Barolo continuano. C’è un Giuseppe Rinaldi 1964 e un Pio Cesare del 1961.
Ci sono tutti: grandi e piccoli imprenditori, personaggi mitici, produttori appassionati e piccoli viticoltori e infine i nomi ormai scritti sui libri dalla storia del vino piemontese: Beccaro di Acqui, Marengo di Alba, Fissore di Bra.
Ma anche un rarissimo Barolo di Gaia degli anni 50, un Moscato Champagne di Bosca dei primi del novecento, un Caluso passito di Orsolani nella classica bottiglia renana.
“Quel Mouton Rothschil del 1916 è il dono di un avvocato” precisa l’amico enotecaro.
Tannini
“Basta con questa storia dei tannini” !
Cosi sbuffò un noto produttore di Castiglion Falletto.
E continuò: “Il Barolo sarà sempre tannico. È la sua impronta”!
Tutti sistemati! In particolare i grandi “guru” della degustazione che trovano e scrivono sui giornali dei cosiddetti “tannini dolci”.
Beati loro che li percepiscono, sinceramente non ho mai capito cosa siano e dove si trovino.
Cosa sappiamo realmente sul concetto tannicità / astringenza?
Di fatto i fenoli del Barolo, sono stati da pochi anni studiati in modo organico e lo stesso termine tannino, chimicamente non dice nulla.
Recentemente, presso l’enoteca del Barolo, il prof. Rocco di Stefano- ex direttore della sezione di chimica dell’ istituto di enologia di Asti- ha tenuto una lezione incentrata su questi temi.
Interessantissime le argomentazioni, enorme il lavoro che resta da fare, tanto è vero che è stato invitato per un’altra lezione.
Alcuni esempi: come si evolvono gli antociani, ovvero la materia colorante del vino, nel corso dell’invecchiamento? Come riuscire ad evitare le tonalità granato-aranciate?
E i tannini-chimicamente definiti proantocianidine-: qual è il loro stato di combinazione e di polimerizzazione in un Barolo tenuto in botte?
Quale ruolo gioca l’ossigeno?
In particolare, come deve essere il tipo di legame dei composti flavani-antociani prima dell’imbottigliamento, affinché il nostro Barolo sia stabile ed armonico?
Per astringenza definiamo il fenomeno che partendo dall’unione dei tannini del vino e delle proteine della saliva induce disagio nell’assaggiatore (secchezza nella cavità orale), è noto da anni che il fenomeno non è in relazione alla quantità di tannini presenti nel Barolo, bensì al loro stato di condensazione e polimerizzazione.
Lunghe macromolecole in genere sono poco reattive con la saliva, ma la dinamica della loro formazione nel corso dell’invecchiamento del vino è in parte sconosciuta, anche la disposizione degli atomi lungo la catena molecolare incide sulla reattività e quindi sul blocco delle proteine della saliva.
Ma perché nessuno sopporta i tannini nel Barolo? Perché questa campagna mediatica antitannini ?
Il Barolo è semplicemente Barolo, non puo’, non deve assomigliare ad altri vini; che senso ha correre dietro sempre e comunque a quella tipologia di vini richiesta dai canoni della moderna degustazione edonistica e supersponsorizzata da molti discussi opinionisti del settore?
Mi pare che ci sai sin troppa omologazione nel settore enogastronomico: i vini non possono sempre essere perfettamente rotondi e armonici, ricchi di souplesse e struttura, dai colori rubino-violaceo, ma il disciplinare del Barolo non dice color granato???
Ma perchè una volta –parlo di trent’anni fa -il problema non si poneva?
Basse rese per ettaro, cultivar diverse, lunghe macerazioni in vinificazione, invecchiamento in botte quanto bastava (ricordo il ’64, mica lo hanno tolto dalle botti dopo due anni, non era ancora maturo…) e il problema tannini allora era risolto.
Nessuno parlava di tannini dolci o amari che fossero.