Con i contributi di Roberto Cerrato, Claudio Riccabone e Daniele Eberle. Foto di Enzo Masa e Ricccardo Bosia. Edito dal Consorzio Tutela Asti.
Un’esperienza bellissima: tredici interviste per essere contagiato da un’incredibile umanità.
Il vero mondo del Moscato, vissuto in prima persona. Emergono speranze, tensioni, timori e gioie.
Un amarcord che si può definire “antropologia”, senza timore di smentite.
Dal nonno quasi morente, durante la prima guerra mondiale, causa il gas mostarda, agli scassi tra il gelo e il ghiaccio, con le mani screpolate e le braccia stanche che faticosamente alzano il pesante piccone. L’influenza spagnola, del 1917, si combatte costruendo un pilone mariano; alla mancanza di zolfo e di rame nei difficili anni 1943- 1945, si sopperisce con molta fantasia.
Nelle parole dei viticoltori citato spesso “Rupestris”, mitico portainnesto, oppure i “rapet”, piccoli grappoli spargoli, dorati di un’antica varietà di moscato. Li ho ammirati ancora in vigne vecchie di ottant’anni. Presente in tutte le interviste l’incessante fatica, unita ai notevoli disagi per lavorare tra i ripidi sorì; solo con l’utilizzo di macchine particolari, frutto della creatività dagli stessi viticoltori, si ottiene un po’ di sollievo.
Poi ci sono i personaggi del mondo del moscato: i mediatori: gli innestatori, i vivaisti, i vinificatori. Gli industriali sono sempre pronunciati con grande rispetto: Camillo Gancia, Mario Cora, Alberto Contratto. Non mancano i protagonisti delle prime marce di protesta: Cerruti e Filante di Cossano Belbo, Spessa di Valdivilla, Albertini di Mango. Anni difficili, ancora oggi ricordati, embrione del futuro associazionismo del moscato. Molti ricordano il grande capolavoro di Renato Ratti, allora direttore del Consorzio per la Tutela dell’Asti: l’accordo interprofessionale sull’uva moscato.
Venticinque fogli dattiloscritti raccontano una storia minore, che diventa subito maggiore. Fermata sulla carta non cadrà nell’oblio. Con l’auspicio che diventi uno strumento di crescita per i sorì del Moscato d’Asti. La maggiorazione del prezzo dell’uva di un euro al miriagrammo è un primo significativo passo, ma insufficiente.
Occorre il riconoscimento legale, con la nascita del nuovo Moscato d’Asti docg dei sorì. Arricchito esteticamente da confezioni di alto profilo, non disgiunte da una forte immagine sul mercato. Una strada soltanto in salita? Un’altra utopia nel poliedrico mondo del moscato?
Probabile. Ma è una scommessa da vincere. Tutti insieme. I sorì del Moscato d’Asti sono una ricchezza importante di tutto il territorio.
La parola a Giovani Bosco (Presidente Coordinamento Terre del Moscato)
Ogni zona ha l’economia che si merita in base alla fantasia, l’intraprendenza e un pò di fortuna delle donne e degli uomini che ci abitano
Sono oltre trent’anni che scrivo che per risolvere “il problema moscato” bisogna puntare oltre che sull’Asti Spumante anche su Moscato d’Asti.
Gli oltre 25 milioni di bottiglie di Moscato d’Asti vendute nel 2013 hanno finalmente fatto raggiungere il traguardo dei 100 milioni di bottiglie, azzerando di fatto le giacenze non fisiologiche.
Purtroppo la quantità non sempre ha portato dei benefici reali a coloro che hanno le vigne nelle zone più difficili: i Sorì.
I “Sorì”, dove la qualità delle uve non ha paragoni.
I “Sorì”, dove è nato tanti anni fa il moscato.
Noi del Coordinamento Terre del Moscato siamo consapevoli che il Moscato d’Asti non è un prodotto di prima necessità.
Per invogliarne il consumo e per riceverne un adeguato compenso, crediamo che oltre al vino, mettere nella bottiglia un po’ di territorio e un po’ di sorriso della nostra gente non guasti.
Dunque tocca ai vignaioli dei Sorì dare all’industria, che ha recentemente scoperto le potenzialità del Moscato d’Asti, i motivi per fregiarsi di un vino diverso dagli altri moscati che vengono prodotti nel mondo.
Dobbiamo quindi iniziare a valorizzare le donne e gli uomini che producono quest’uva: i nostri contadini , partendo dalle donne e dagli uomini dei Sorì.
Donne e uomini di qualità!
La Regione Piemonte ed il Consorzio di Tutela hanno recepito il messaggio.
Questo lavoro del giornalista-scrittore Lorenzo Tablino ne è una prima testimonianza!
Infine una testimonianza presente nel libro
Un novantenne tra le vigne del moscato
Scagliola Alessandro – Classe 1921 – Calosso
…Ricordo le braccia nude, irritate e doloranti quando si passava accanto al mais alto.
Mio nonno Carlo, nato a Calosso nel 1875, venne in questa piccola cascina a Orto Peschiera.
Era il 1905, allora c’erano molti boschi e piante di salici.
Quest’ultime servivano per i guret e i pali per la vigna; ma questi duravano poco e marcivano dopo 2-3 anni.
Poco alla volta lavorando sodo, Carlo acquisì altre 20 giornate di vigna. La famiglia era numerosa: sette figli con quattro maschi.
Carlo partì militare sul fronte della prima guerra mondiale, unitamente ai due figli, tra cui Ferdinando – classe 1898 – mio padre. Tornato dalla guerra, riprende il lavoro nelle vigne. Poco dopo a Calosso arriva la Fillossera.
Erano momenti difficili. Furono necessari numerosi scassi invernali, per il lavoro si acquistò una cavalla di 8 quintali. Era robusta e tirava un grande aratro.
Finito il lavoro, slegata dall’aratro, tornava dalla vigna alla stalla da sola.
Mia mamma toglieva i finimenti, la cavalla si rotolava nell’erba, poi andava riposarsi. Dalla cima della collina – circa 500 metri – mio nonno fischiava, mia mamma apriva la stalla e la cavalla da sola ritornava su. Trainava un aratro robustissimo che arava in profondità nel duro tufo bleu: 25 centimetri. Ripassavano quattro volte per arrivare a 1 metro.
In seguito venne acquistata da un commerciante di bestiame, aveva vinto il Palio degli Asini di Asti per alcuni anni. Finì la sua vita da un carrettiere che lavorava per conto terzi.
La tenemmo per circa 10 anni. Alla festa di San Siro di Calosso, il giorno 8 dicembre – festa dell’Immacolata – c’era gioco del tacchino: consisteva nel taglio del collo dell’animale con la sciabola, montando il cavallo. Mio padre era alto, sapeva tirare di spada, vinceva spesso.
Mio nonno era anche vivaista, coltivava barbatelle e per le radici americane andava a rifornirsi vicino ad Alessandria da un vivaista specializzato. Usava Rupestris, Mouvedre, Riparia.
Mio padre innestava bene, un po’ di scuola agraria l’aveva fatta, applicava lo spacco inglese a tavola e sul posto a gemma e a occhio dormiente. Il selvatico si acquistava “a chilometri”, erano fascine lunghe circa 2 metri e mezzo, caricate sul tamburel trainato dalla cavalla.
Il vigneto presentava filari promiscui a grano e mais, larghi circa un 1,5 metri.
Ricordo le braccia, nude irritate e doloranti quando si passava accanto al mais alto.
Nel 1941 arriva la cartolina. Vado nei carabinieri come mio padre. All’inizio sono di presidio a Pallanza, sul lago Maggiore.
Nel 1943 sono al Brennero, dopo l’8 settembre mi presero prigioniero i tedeschi. Solo mio nonno rimase a mandare avanti la cascina a Calosso con difficoltà. Il rame per la poltiglia bordolese non si trovava, il Ramental, surrogato in vendita presso i Consorzi Agrari, serviva a poco o niente.
Fummo per un breve periodo soci della Cantina Sociale di Calosso, nata nel 1904. Rimarremo pochi anni, perché ci mettemmo a vinificare in proprio. Mio nonno alle tre del mattino si alzava, guardava la stalla, poi caricava tre fusti di acqua usando secchiello e una corda.
La portava alle famiglie di Calosso e alla Cantina Sociale per i lavaggi.
Allora il paese era povero di acqua. Ricordo il vino sfuso venduto all’ingrosso a mediatori o a privati in damigiane. Siamo arrivati a produrre circa 220 brente di Moscato. Producevamo anche Barbera, Freisa e Bonarda. Avevamo una buona attrezzatura: fusti di castagna, vasche di cemento, torchi e sacchi olandesi che lavavamo nella sorgente vicina, fredda come non mai. Ricordo anche il primo cingolato Fiat, arrivò nel 1969.
Nel 1980 cessammo l’attività di cantina, le uve continuammo a darle Fontanafredda tramite il mediatore Carelli. Era un grande moscatista. Veniva spesso a trovarci, portò anche gli enologi di Fontanafredda, ricordo Testa e Crestodina.
Ricordo un anno Carelli trattare il prezzo dell’uva dal cortile. Noi eravamo tutti in casa con l’”Asiatica”. Era il 1958.