Creatività umane
La poesia di Mario Sandri
La mula e la fatica:
Animale compartecipe nello spartito della fatica.
Illimitato genere incarnato nel lavoro.
Primordiale sollievo alle forze umane.
Riflettori puntati sulla candidatura per l’Unesco del territorio albese.
Si è iniziato anni fa con le “Cattedrali Sotterranee” di Canelli, poi si è parlato delle vecchie e grandi botti in rovere, ove la marchesa Falletti Colbert ha invecchiato i primi Barolo, si è accennato alle tartufaie. Altri hanno evidenziato valenze di altra origine.
Perché non proporre i muretti a secco posti a sostegno delle nostre vigne?
Un grande capolavoro di architettura rurale che rischia di andare disperso.
“Li guardi bene enologo, dieci anni, venti al massimo e di questi muretti non so cosa rimarra? Così mi domandava un mediatore di uva moscato in transito tra Moncucco e San Maurizio nel comune di Santo Stefano Belbo. Era il 2007.
I muri a secco fanno parte, a pieno titolo, del paesaggio viticolo delle Langhe, in quanto fondamentali per sostenere i cosiddetti sorì o vigneti a forte pendenza.
Un termine che nella tradizione rurale, in genere è riferito ad una porzione di terreno a forte pendenza, si può ipotizzare oltre il 40%.
Solo nella zona docg del moscato sono oltre 1300 gli ettari di vigneti relativi alla pendenza citata.( dati CSI Regione Piemonte ). In particolare nelle valli Belbo e Bormida.
Limitandoci alle pendenze superiori al 50% citiamo Santo Stefano Belbo con 74 ha, Cossano Belbo con 41 ha, Camo con 21 ha. Spesso, in presenza di pendenze molto elevate, il viticoltore è costretto a terrazzare la superficie coltivabile. Da molti secoli sono famosi, in tutta Europa i terrazzamenti di aree vitate: citiamo Mosella, Roussillon, Valtellina, Cinqueterre e Costa d’Amalfi.
Osservando i vigneti terrazzati si prova una forte ammirazione per la loro straordinaria bellezza, ricca di ordine, geometria e precisione: veri monumenti costruiti, ben inteso, per le loro indispensabili funzioni. Ingegno e fatica per strappare terra a colline molto scoscese e difficili, volontà e determinazione per lavorare quelle vigne per renderle produttive. Un’interazione perfetta tra l’uomo e l’ambiente. Ma come si svolgeva il lavoro per costruire i muretti a secco, che sostenevano i veneri terrazzati?
Ascoltiamo i protagonisti di allora.
Per prima cosa occorreva trovare le pietre nel terreno, le cosiddette lòse.
In bassa Langa sono migliori, ma se ne trovano poche, in alta Langa sono numerose ma di qualità inferiore. Le lòse si trovavano nella terra, quando si scassava per mettere a dimora la vigna. Si toglievano per liberare il terreno. Una volta si usava il picco e tanta fatica.
Se la lòsa era grossa con mazza si spaccava in due. Chi aveva fortuna trovava la vena di lòse.
Allora con il cuneo da pietra e la mazza si rompeva la vena estraendo lòse piccole.
Erano radunate in mucchietti ai margini del campo. In dialetto significava “fare la quera”.
Ora non rimaneva a costruire il muretto di pietra. Inizialmente si preparava il terreno scavando un fosso, sino ad arrivare al tufo marnoso. Sopra si mettevano le pietre in fila. Difficile era trovare le lòse quadrate, che combaciavano. Non si usava mai calce o cemento.
Al masssimo si smussava la pietra, usando mazza e cuneo.
Per evitare che le lòse “ballassero” si metteva negli spazi pietre piccole.
Inoltre tra il muro e il terreno si metteva pietrisco e terra.
Il muretto mentre saliva era mai verticale, seguiva la pendenza della terra. Anche 50 cm per un muro alto 4 mt. In cima si mettevano pietre grosse e argilla rossa.
Se fatto bene il muretto è un capolavoro della professionalità umana.
Lineare, perfetto, soprattutto stabile. Tutto con sole pietre e terra. Senza nessun strumento particolare, al massimo la lignola e il metro. Null’altro. Ma ci sono due varianti nella costruzione dei muretti a secco: gli archi e i crotin. Per gli archi si usava uno scheletro di legno.
Si sistemavano bene le pietre sopra; finito si toglieva l’armatura.
L’arco si reggeva in quanto le pietre della curva scaricavano il peso interamente sui pilastri.
Per il crotin invece si doveva operare prima di costruire il muretto.
Si scava nel tufo si scavava, subito si portava via la terra.
Non era facile. Occorreva scavare con il picco prima in alto e poi in basso, onde evitare improvvisi e pericolosi crolli. Poco alla volta. In genere si ricorreva ad esperti.
Importanti l’occhio e l’esperienza.
Il tufo bleu era il migliore. Compatto come il cemento.
Andando avanti si poteva trovare una sorgente, in altri casi il crotin raccoglieva acqua piovana, grazie ad apposite canalizzazioni, spesso per semplice gravità.
Era sempre fresca. I crotin erano molti utili.
Per conservare salami, conserve o bottiglie di moscato.
Ma durante l’ultima guerra hanno rappresentato eccellente rifugio per molti viticoltori e qualche partigiano durante i rastrellamenti dell’esercito di Salò.
La mula Pastura
L’avevano acquistata a Valdieri.
Una mula bellissima, adatta a tuti i lavori, usata dai pastori in valle Gesso per spostare il fieno e altri carichi. La chiamavano Pastura. Era il 1948.
Cinque anni dopo alla fraz. Serre di Alba scavando una grande vasca per l’acqua comparve una lòsa enorme. A tre metri di profondità.
Pesava troppo, occorreva romperla per estrarla.
Si mise una mina con polvere nera acquistata in drogheria in Alba.
Si fece un buco nella lòsa, si introdusse l’esplosivo, si chiuse con argilla.
Si accese la miccia. La lòsa si spaccò in due.
Ma il pezzo più piccolo era di 2 mt, largo 50 cm.
Dal peso di molti quintali. Occorreva la forza della mula.
Si imbragò la lòsa con catene. Si costruì un’impalcatura adatta, dotata di grande carrucola Si attaccarono le catene al balansin della mula.
Tutto era in tiro. È il turno di Minot, il conducente di Pastura.
Con un lessico che solo lui e la mula conoscono, ordinò il tiro.
Lo sforzo è enorme, Pastura è tenace, non molla, poco alla volta la lòsa salì in superficie. Una foto fermò l’avvenimento.