Architetture spontanee
Linee che si intersecano nella semplice cultura di un luogo.
Opere minimali che completano e interpretano un Territorio.
Magia e poesia si fondono a dipingere il disegno del suolo
Un fascino in un continuo trasudare emozioni.
Mario Sandri
Guarda un vigneto da che parte vuoi, cambia pure angolazione: in giù, in su, in alto e in basso, dritto o di traverso. L’occhio incontra filari sempre allineati.
Una regola semplice e antica, da sempre rispettata.
Se il terreno è poco ripido e regolare non è difficile tracciare allineamenti perfetti.
Ma se la vigna è posta in colline molto ripide, se il terreno che accoglierà le future viti fa una gobba o una schiena, se cambia la pendenza, ci sono irregolarità, allora la questione si fa difficile. Molto.
Oggi, in vero, mettere a dimora vigneti è abbastanza facile: molti strumenti, anche elettronici vengono in aiuto.
Ma sino agli anni ’50 del secolo scorso contavano occhio ed esperienza. Cognizioni non facilmente acquisibili.
Correlati ad una dura professione e a tanta passione.
Era un’arte.
Oggi, alla presenza di terreni del tutto irregolari, domando: come hanno fatto a creare filari così lineari, sesti di impianto perfetti, percorsi per gli animali tutto sommato comodi? Aggiungiamo: capezzagne in cui si transitava facilmente?
Geometrie rurali perfette, linee essenziali frutto di una creatività senza limiti, che destano ammirazione e rispetto. “Architetti delle vigne” potrei definirli.
Nessun aiuto, né cartaceo, né elettronico. Non usavano neppure le lignore. Altro che computer in vigna, non esisteva ancora la tracciatura laser a gps o i nuovi strumenti microsatellitari. Niente di niente.
C’era solo il gelo insopportabile e la terra argillosa che si attaccava sempre agli scarponi e alle mani ruvide e gelate.
C’era il cielo terso che si perdeva su qualche sorì, nelle lontane e innevate catene montagnose.
Sentiamo qualche testimonianza.
Er mocc
Giuseppe e Renato Borsa, di Madonna di Como (Alba), Piero e Bruno Culasso, di Trezzo Tinella sono viticoltori e testimoni di vite contadine passate. Tracciano anche vigneti, il mestiere dei loro padri.
Per impostare i filari in un terreno destinato a vigneto occorreva, per prima cosa, tracciare una linea immaginaria sistemando dei canet (piccole canne) per terra. Il filare poteva essere rimodulato, in seguito, seguendo a vista la curva di livello della collina. Era importante stare in piano. In vero gli occhi dovevano individuare la linea ideale che avrebbe seguito il filare.
Il concetto fondamentale era questo: seguire la linea della collina, stando il più possibile in piano per favorire il lavoro delle persone e, soprattutto, quello di aratura dei buoi.
La trazione meccanica era rara prima della seconda guerra mondiale.
Se la collina era regolare, il lavoro era facile, viceversa con superfici irregolari, era molto difficile.
Spesso, dopo avere tracciato qualche filare, dovevi fare quello corto, detto mocc. Era fondamentale per portare, di nuovo, in piano i filari successivi.
In grandi vigneti dovevi tracciare anche due o più mocc.
In terreni a forte pendenza dovevi girare di più per stare in piano. Il proverbio è: “Gira la collina, gira il filare e sei in piano”.
Ricordiamo vigneti a Valdivilla (Santo Stefano) e Camo con pendenze oltre il 55% e con filari larghi solo 1,20-1,30 metri. Si voleva sfruttare lo scarso terreno disponibile.
Tra i filari i viticoltori coltivavano, a “rigadin“, grano e fave.
Anche le capezzagne erano strette, in quanto i buoi giravano in piccoli spazi.
Ricordo anche la mezza capezzagna per interrompere l’andamento del filare e permettere di uscire dalla vigna con meno tempo, facilitando anche i trattamenti a spalla con zolfo e verderame. Aggiungiamo che un filare che stava in piano, voleva anche dire acqua piovana che scendeva a valle dolcemente. Pertanto meno erosioni.
Sino agli anni ’50 del secolo scorso l’impianto del vigneto era finalizzato a:
- passaggio animali;
- maggior produzione di uva e grano;
- sfruttare al massimo la superficie;
- minori erosioni.
Inoltre si distribuivano meglio verderame e zolfo, non dimenticando le zappature manuali. Insomma tribolavano meno uomini e animali.
Negli anni seguenti cambia tutto: arrivano i primi aratri a corde con argano, seguiti dai Caterpillar e altre mezzi pesanti per impiantare i vigneti.
Ma si destruttura la terra con conseguenti dilavamenti ed erosioni.
Oggi, nei grandi vigneti di pianura, insieme a potenti macchine da scasso, da oltre 250 cavalli, si usano sistemi satellitari per tracciare i filari.
Ma resta un problema. Se il terreno non è perfetto, qualche volta la tecnologia si arrende. Resta per fortuna il cervello umano.
FINESTRE
Comandate, roanera e carzà
Lo scasso per un nuovo vigneto.
Il lavoro più massacrante per gli anziani viticoltori.
Quando non c’erano, mai nella vigna né aratri, né trattori.
C’era solo l’uomo con il piccone o la vanga. Qualche volta si era costretti a tirare su dei terrazzamenti: pietra su pietra, muro su muro.
Restava solo la compagnia del freddo e di tanta fatica.
Lo scasso e i terrazzamenti si eseguivano in inverno.
Era un lavoro lungo e impegnativo, ma indispensabile per il futuro della cascina. Ogni tanto, di sera si prendevano picconi, mazze e cunei per portarli agli artigiani affinchè li forgiassero.
Occorreva temprarli bene affinché affondassero meglio nella dura terra.
Si andava a fondo, anche 120-150 centimetri. Trovavi già, a mezzo metro, tufo bianco e azzurrino, ma anche pietre e qualche strato di sabbioni.
Nel Roero, con frequenza trovavi pure pochi centimetri di gesso.
Le pietre-che in alta Langa-chiamavano lòse-si mettevano da parte; servivano per i muretti a sostegno dei vigneti.
Nelle colline dell’albese le pietre sono piccole e irregolari, in alta Langa invece sono migliori, in quanto spesse anche 15-20 cm, con venature di sabbia.
Le pietre tolte dalla terra sono correlate a vecchie tradizioni.
Le “comandate” consistevano in disposizioni comunali per cui ogni famiglia doveva portare al comune un certo numero di pietre, in funzione delle terre possedute.
Rotte con una mazzetta, servivano per sistemare la “roanera“, detta anche carzà, ovvero la striscia doppia, larga circa 30 cm, ove passavano le ruote dei carri.
Oltre a fornire le pietre, la famiglia doveva anche fornire lavoro per 2-3 giorni l’anno.
Accanto ai muretti, a sostegno dei vigneti ripidi come non mai, l’uva prende luce e sole.
Le pietre raccolgono il calore di giorno e lo cedono di notte. Spesso i viticoltori dicono “Il moscato migliore? Quello dei muretti, non c’è dubbio”.
Non a caso il comune di Santo Stefano Belbo, ben noto per l’eccellenza delle sue uve moscato, ha molti vigneti terrazzati, specie nei celebri crus Moncucco e Bauda. Stessa considerazione per i limitrofi comuni di Cossano Belbo e Camo.
Tra i muretti trovava ottimo rifugio per un piccolo uccello della coda bianca.
In dialetto lo chiamavano coa bianca o boalin-a. Conosciuto da tutti i viticoltori. Nella terra appena smossa cercava i lombrichi, saltava sempre davanti o dietro ai buoi. Infatti, in italiano è chiamato “ballerina”.
Negli interstizi, tra le lòse, scavava, usando il becco appuntito, una piccola apertura. Diventava il suo nido.
Er pich ëd Gepo
Quando il picco non andava più, non bucava il tufo, andavi da Gepo, al Brich di Trezzo Tinella. Lui riparava tutti gli attrezzi. Il suo trucco era la tempera giusta. Per evitare che il picco si piegasse o rompesse.
Gepo era abilissimo nel forgiare anche mazze (ovvero parti taglienti del vomere dell’aratro) vanghe e altri attrezzi. Costruiva anche lampade ad acetilene e soprattutto macchine per “dare il verderame”.
Scaldava con il carbone la punta del picco, la raffreddava in una soluzione di acqua e altri ingredienti che ha mai svelato a nessuno. Qualcuno sottovoce dice che aggiungesse olio minerale bruciato.
Domenico Pantano ha lavorato il ferro per molti anni. Ne conosce i molti segreti: Quando era necessario rifare i vari utensili si accendeva la sfòrgia, poi si copriva con carbone portando il ferro in ” bollitura”. Assumeva color rosso vivo. Poi a martello e incudine si tirava al punto originale.
Una volta fatto questo, si riscaldava una seconda volta, sino a color rosa. Fatto questo si immergeva in acqua e altre sostanze. Il colore diventava azzurro-verdastro. Il tempo? Un segreto custodito gelosamente dal fabbro. Altro motivo molto importante era temprare d’estate o d’inverno (cambiava il modo di operare).
Se lavoravi male il metallo restava “morbido” e si piegava, oppure restava “secco” e si spaccava.
Sono professionalità di alto profilo, oggi sempre più rare. Di fatto il picco forgiato da Gepo durava un‘intera vita. Per questo venivano anche da lontano, anche da San Donato di Mango o da Neive per forgiare gli attrezzi. Gepo era anche un abile cantastorie, ma la sua vera arte era quella di trovare acqua nei vigneti. Usando un orologio tascabile, chiamato Pierina (altro nome avvolto dal mistero), come un pendolo, indicava dove scavare per il pozzo. Non sbagliava mai.