Roddino 1913. Vittorio Emanuele Mauro è ritornato, rivede le colline, le case, la gente. Vent’anni fa era andato via.
C’è anche sua moglie. Suo zio è venuto alla stazione di Alba a prenderli con il calesse. Hanno sempre parlato, poi d’improvviso l’imponente castello di Serralunga, dopo il campanile di Roddino.
È ai Noè, una grossa cascina. Sua moglie entra con i bagagli, Vittorio sta per piangere. Vent’anni prima, più o meno negli stessi giorni, saliva sul bastimento a Genova, destinazione Rafaela di Santa Fè, Argentina. L’aspettavano dei parenti.
Per molti anni aveva fatto il commercio di vini in quella pianura calda e arida in cui vivevano molti italiani. Suo padre gli mandava il vino in barili via mare. C’era molta richiesta ed il prodotto piaceva.
Col tempo, grazie all’aiuto di sua moglie, aveva venduto altri prodotti alimentari, aveva anche diretto un albergo. Non sa ancora bene il motivo per cui è tornato in Italia, non ha certo fatto fortuna come si raccontava a tarda sera nelle osterie dei paesi vicini, però gli affari non andavano male.
Entra in casa, rivede le stanze, i mobili, la vecchia stufa in ghisa. Sul tavolo un rotolo di lettere, le riconosce subito. «.Vedi, le abbiamo tenute tutte.» dice suo fratello.
Vittorio srotola vecchi fogli ingialliti, buste consumate di carta molto fine con l’inchiostro svanito, inizia a leggere.
Rafaela, 19 marzo 1908
Cari Genitori,
il vino lo ricevetti da otto giorni, è molto buono di gusto, però ha troppo colore, bisogna farlo espressamente e metterci delle uve bianche perché ci levano il colore, il vino è buono e non importa il prezzo, per la vendemmia che viene mettetevi d’accordo con Brovia e Cassino e preparate il necessario per mandarmene 200 barili da 100 litri fatto con l’uva della Castella, un po’ di Freisa e uva bianca che comprerete apposta, farete un tipo di vino moltissimo più chiaro, se fosse possibile appena rosso perché qui i vini di colore non li vogliono più…
Roddino, 1920. Vittorio continua a vendere vino. Suo padre – nato nel 1840 – andava a piedi sino al mercato di Farigliano per sistemare qualche brenta di Dolcetto.
Avevano poche vigne ed erano le ultime di Roddino, poi in su verso Serravalle solo boschi di castagne.
Vittorio con i soldi portati dall’Argentina ha comprato una bellissima cascina. È in mezzo ai pini, si chiama il Bricco, è la più bella posizione di Roddino, nelle giornate di sole si vede tutta la pianura. Ci sono tante tavole di vigna, vecchie viti rivolte a mezzogiorno.
Vittorio sta anche allestendo una piccola cantina, da un bottaio al Gallo acquista piccoli fusti in castagno, due botti grandi in rovere, di seconda mano, le ritira dal Conte di Mirafiore a Serralunga, la prossima settimana andrà a Carrù, gli serve un torchio grosso, quello che ha trovato in cantina aveva ancora le viti in legno.
Per qualche anno Vittorio gira nelle Langhe e nell’Albese, vende vino, i clienti aumentano, adesso fa anche un po’ di commercio, acquista delle brente di Dolcetto da famiglie vicine.
Ha fatto amicizia con molti osti, dicono che il suo Dolcetto si beve bene: «.I clienti, finito il mezzo litro, ne chiedono un altro.». Vittorio gira dappertutto, qualche volta va anche a Ceva e ad Albenga. Il vino lo manda per ferrovia o con il calesse, sta attento a proteggere bene le damigiane per il trasporto, qualche volta carica qualche fusto da sei brente. Si raccomanda sempre ai clienti che appena svuotato, lo lavino bene con acqua calda e soda poi brucino la carta con lo zolfo.
Gli ha scritto il Colonnello del IV Reggimento di Artiglieria di Cuneo. Cercano vino per la mensa ufficiali. Vittorio andrà a trovarlo nelle prossime settimane, non sa cosa rispondere.
Se la quantità è grossa per lui sono problemi. Vuole anche chiedere qualche informazione in giro. Ha saputo che nelle valli cuneesi c’è molta richiesta di vino, qualcuno viene anche a Roddino a comprare le uve.
«.In montagna si beve.» ripetono sempre.
Dronero 1924. «.Il locale è vecchio, negli ultimi anni lo abbiamo trascurato, ma ci vengono ancora tanti clienti, c’è molto passaggio.». Vittorio ascolta e guarda.
È venuto a Dronero in val Maira con suo figlio Osvaldo e sua moglie. Ha saputo che c’era una piccola cantina in vendita. In realtà è una mescita di vino.
«.La cantina è sotto, venite.» fa l’anziano oste. Il locale è piccolo, buio, pieno di ragnatele, qua e là botti vuote, odore pesante di chiuso.
«.Le ho sempre tenute bene – continua l’oste – lucidavo anche gli ottoni d’inverno. Se volete allargarvi c’è un altro locale qui dietro, penso vi mettiate d’accordo con i vicini.».
Vittorio è indeciso, suo figlio dice che il locale non è una vera e propria cantina ed è molto trasandato.
Ritornano sopra. Ad un tavolo alcuni anziani giocano a carte, vicino a bottiglie ormai vuote, a bicchieri con l’alone rosso violaceo e un po’ di vino al fondo. Ad un altro tavolo un vecchio con il mantello nero indosso, silenzioso, fuma un toscano.
«.I clienti ci sono, ve lo garantisco, è mio bisnonno che ha aperto l’osteria, ci conoscono. Qui la gente beve, in paese gli unici posti di ristoro sono le osterie, ce ne sono almeno quaranta. Hanno di tutto, birra, menta, vino chinato, vermouth, marsala, ma la gente chiede soprattutto vino, poi ci sono i soldati di leva. Molte famiglie nell’autin hanno la vigna, magari piccola, ma un po’ di vino lo fanno, c’è Barbera, Bonarda, Neretto, Nebbiolo.».
«.Come? Nebbiolo?.». «.Certo, Nebbiolo di Dronero – dice l’oste – è come il vostro dell’albese, meno conosciuto, d’accordo, ma l’uva è la stessa, solo l’acino è più piccolo, ovviamente fa meno gradi, ma il vino si conserva; alcuni clienti lo chiedono sempre. Nel secolo scorso c’erano tante vigne di quest’uva.».
«.Abbiamo clienti a Sampeyre e a Vinadio – continua l’oste – quante damigiane ho portato su, anche al confine con la Francia.».
Vittorio guarda ancora una volta il locale, è indeciso. Tavoli neri in noce, sedie impagliate brutte, il banco con un marmo scheggiato e pieno di macchie viola, i rubinetti in ottone perdono, sugli scaffali tanti fiaschi vuoti.
Pensa ancora un attimo. «Va bene, se ci accordiamo sul prezzo, il locale è mio.».
Dronero, 1930. Vittorio ha l’osteria da sei anni, è contento. Osvaldo lo aiuta. Ha cambiato molte cose, i mobili sono nuovi, sotto in cantina ha acquistato un locale dai vicini, ha buttato giù alcuni muri, ha rifatto tutto.
Ogni mese va a Roddino, cambia quattro corriere. Cerca del vino presso gli amici del paese, gira tutte le cascine, va anche a Serralunga. La settimana dopo un amico di Dronero parte con le mule e con due fusti da 14 brente. Impiega due giorni a portargli il Dolcetto.
Il vino per caduta viene travasato in cantina e poi sistemato in damigiane o in bottiglie che porta sugli scaffali dell’osteria.
I clienti sono aumentati, si dice che Mario ha i vini di Alba, in paese ormai è conosciuto e stimato. Sua moglie sta al banco di mescita, molte donne di Dronero portano i fiaschi vuoti, Osvaldo serve ai tavoli, parla con la gente.
Vittorio non resta molto in osteria, se non è a Roddino è su nelle valli, a vendere vino. «.C’è molta gente nei paesi, nelle borgate, su in alto nelle frazioni più lontane – dicono i viticoltori presenti in zona. – Se il vino arriva sulla porta di casa, lo acquistano.».
La bicicletta è a posto. Vittorio controlla le gomme, sul portabagagli sistema la cesta che si è portato da casa, dentro ha due pagnotte e dei campioni di Dolcetto.
Parte, l’aria è gelida, molti clienti non lo vedono da alcuni mesi. In corriera era salito sin dove poteva, in estate le strade di fondo valle sono percorribili. Ad Acceglio si è fermato.
Vittorio ha dormito nella locanda, ha fatto un grosso ordine di vino, sale sulla bici, scende per la valle. Va da tutti i clienti, si ferma nei paesi, sovente lascia la bici all’ombra di un platano sale su nelle borgate, cammina svelto su sentieri in pietra.
La gente lo accoglie, parla, quasi sempre ordina il vino. «.Quando arrivano le damigiane piene, restituite quelle vuote.» si raccomanda.
In altre valli Vittorio va in treno, a Limone conosce gli albergatori. «.I suoi vini sono apprezzati da alcuni turisti di Torino ed Asti.» dicono; l’altro giorno un generale in pensione lo ha accompagnato a Cuneo con il calesse.
Oggi è arrivata una lettera, è dell’oste di Casteldelfino, su, in alta Val Varaita. È quasi senza vino, ordina quattro damigiane. «.Il solito Nebbiolo.» c’è scritto.
«.Come facciamo? – dice sua moglie – sono otto giorni che il paese è isolato dalla neve.». La corriera con le catene arriva solo a Sampeyre, più in su non si va.
«.C’è un servizio di slitta con i cavalli tre volte la settimana.» dice Osvaldo. «.Credo sia solo per le persone o per i casi di emergenza.». «.Non so – dice Vittorio – vado a chiedere in Comune.».
Nevica in tutta la valle, la corriera partita da Busca procede lenta, pochi i passeggeri diretti a Sampeyre. «.Oggi arriva la slitta?.» chiede Vittorio al conducente.
«.Sì, di norma arriva a mezzogiorno davanti alla chiesa e riparte dopo un ora; per arrivare a Casteldelfino deve percorrere dodici chilometri di salita.».
Vittorio aiuta a scaricare quattro damigiane, le porta sotto i portici, aspetta, in paese c’è quasi nessuno. La corriera è ferma sulla piazza. Dopo un’ora arriva la slitta, Vittorio vede due cavalli, il conducente con il mantello pieno di neve, due viaggiatori scendono svelti da una grossa cesta di vimini.
Si avvicina. «.Quando riparte?.» chiede. «.Prima porto i cavalli allo stallaggio, penso tra un’ora – dice il conducente affaticato. – Viene su? È l’unico viaggiatore.».
«.No, avrei merce – dice Vittorio – visto che c’è posto. Sono quattro damigiane di Nebbiolo per l’oste di Casteldelfino, è quasi senza vino.».
Il conducente della slitta per un attimo non parla. «.Di norma non facciamo servizio di merci, però il suo Nebbiolo lo bevo sovente anch’io, è molto buono; se non arrivano dei clienti penso di portarle su.».
Sono quasi le due, i cavalli sono stati attaccati, le damigiane ben sistemate e legate alla grossa cesta di vimini; Vittorio ha trovato un grosso telone per proteggerle.
Dronero, 1942. Due bambini continuano a passeggiare davanti alla lunga fila di soldati ferma sul viale rettilineo di Dronero. Ogni volta che passa una macchina si sentono urla, i soldati chiudono gli occhi, si tappano il naso; la polvere dello stradone finisce dappertutto.
Fa caldo, da alcune ore gli alpini sono fermi sul viale in attesa di trasferirsi alla stazione di Cuneo per la tradotta. I sottufficiali invitano alla calma, si fatica a tener fermi i muli.
«.Come saranno le montagne russe? – qualcuno chiede sottovoce – ma i tedeschi sono così forti!».
«.Conosco quei bambini, uno è il figlio di Osvaldo, i suoi hanno l’osteria proprio qui vicino, sotto c’è la cantina; l’altro è il figlio del sarto.».
«.Ehi bambino, vieni qua – fa il soldato. – È vero che i tuoi hanno l’osteria? Come ti chiami?.». «.Oscar.» risponde il bambino più piccolo. «.Vedi – continua il soldato – questa borraccia è vuota, se la riempi di vino, per te ci sono venti soldi.».
«.Certo – dice Oscar – devo riempire anche le altre due.?». «Va bene.» dicono gli altri alpini.
«.Dove prendo il vino? – chiese Oscar a sua madre – Devo riempire tre borracce agli alpini, mi danno venti soldi.».
«.Prendi quelle tre damigiane. È Dolcetto di Roddino, è arrivato la settimana scorsa, tuo nonno ha scelto bene.». Il vino è fresco e le tre borracce fanno il giro di un solo battaglione. Oscar con il suo amico sono di nuovo in cantina, non sapevano dove tenere tutte le borracce che hanno avuto. Qualcuno paga anche trenta soldi per un litro di vino, la voce gira su e giù per il viale, tutti chiamano, tutte le borracce sono consegnate a Oscar.
Qualcuno pensa al lungo viaggio, al caldo della tradotta, fa un po’ di scorta. «.Avrai riempito duecento borracce, bravo Oscar – dice sua madre. – Guarda le damigiane, sono vuote, bravo!.».
Oscar e il suo amico corrono contenti nella piazza grande di Dronero. Fanno vedere a tutti due aquilotti d’argento da cinque lire. Le hanno avute da Osvaldo; il papà di Oscar era contento per le damigiane vuote.
Dronero, 1946. «.Qual è il suo nome?.».
«.Felice.».
Osvaldo è seduto ad un tavolo dell’osteria, osserva l’uomo seduto davanti. È abbastanza alto, magro, lo sguardo attento.
«Vuole fare il venditore di vino per noi?.».
«.Conosco abbastanza bene le vallate alpine qui intorno, credo di cavarmela con la gente.».
«Vediamo le condizioni – dice Osvaldo. – Noi abbiamo bisogno di vendere più vino, ci stiamo ingrandendo, la guerra è finita, presto inizieranno a costruire una nuova cantina qui a Dronero, in periferia. Il terreno era già nostro, ho già chiesto ad un geometra, presto iniziano.».
Due carrettieri entrano nell’osteria, prima hanno chiesto dell’acqua per i cavalli fermi li davanti. Trasportano ghiaia su a San Damiano, dove riparano la strada. Bevono due bicchieri di Barbera a testa, prima di uscire prendono dei fiaschi per il cantoniere di Roccabruna.
Osvaldo dice a Felice «.Le sue credenziali sono ottime, puo’ iniziare la prossima settimana. Non ha limiti di zona, giri dove vuole, nelle vallate di Cuneo, ma abbiamo anche clienti a Torino, a Lanzo; venderà solo nostri vini su provvigione. Avrà sempre con sé una valigetta con tanti campioni di vino da far assaggiare. Tutti i giorni dovrà andare a piedi famiglia per famiglia, borgata per borgata.».
Valle Varaita, 1948. Felice sta camminando da due ore, intravede le prime baite della frazione Gilba di Brossasco. È a 1200 metri, la mulattiera è ripida. Porta con sé venti botticini in una valigetta di pelle consumata; dentro ci sono solo tre qualità di vino: Barbera, Dolcetto, vino da pasto.
Incontra una mandria di mucche, un cane abbaia. Felice chiede di Barale, così gli ha detto il farmacista di Sampeyre; è la persona più conosciuta della frazione.
Felice bussa. «.Avrei del vino da vendere, è dei Mauro di Dronero, le uve le acquistano nell’albese.».
Felice versa del vino in un bicchiere, dalla piccola finestra della baita si intravedono grandi distese di pini. «.Questa è Barbera – dice Barale – la preferisco al Dolcetto, è più corposa. Quanto costa?.». «.Cinquanta lire al litro.» dice Felice.
«.Il prezzo è interessante, ne prendo una damigiana.».
«.Senta – continua Felice – posso scendere a quarantacinque lire se mi aiuta a vendere un po’ di vino alle altre famiglie della borgata.».
In tre ore Felice vende almeno sette brente di vino, Barale lo accompagna in tutte le case. «.È la prima volta che qualcuno sale a vendere vino, prima andavano a prenderlo con le mule a Venasca.».
«.Quando arrivo in una borgata – dice Felice – cerco qualcuno ben conosciuto da tutti, talvolta il parroco, la maestra, il negoziante. Gli vendo il vino, con tanto sconto, poi faccio il giro di tutte le case. Stasera conto di arrivare a Dragoniere, dovrò camminare per due ore, devo visitare molti clienti.».
«.Cammina molto per il suo lavoro?.» chiede Barale.
«.La corriera mi porta in fondovalle, poi sono sempre in giro con la mia valigetta. Guardi qua – dice Felice – guardi questo legno forato, l’ho fatto io per far stare in piedi i campioni. Qualcuno mi offre sempre da mangiare e da bere, dormo dove capita, da amici, in qualche locanda, d’estate anche nei fienili. Non mi stanco, è il mio mestiere, qua in montagna bevete tutti, giovani, anziani, donne, uomini.».
Dronero, 1950. Oscar si è diplomato ad Alba, è enologo. Suo padre lo ha chiamato. «.Con Felice vai a vendere vino in montagna, ho anche acquistato un piccolo camiòn.».
Felice scrive a tutti, avvisa i clienti con una cartolina postale… consegneremo il vino il giorno sette alle ore dieci nel vallone San Giacomo di Demonte…
Una settimana dopo Felice e Oscar partono da Dronero con il Leoncino, sopra ben legati 4 fusti da 6 brente caduno. Alle nove sono a Demonte, un’ora dopo si fermano, la strada è troppo brutta. Felice dà due colpi di clacson.
«.L’appuntamento era per le dieci.» dice Oscar. Scendono tutti, donne, uomini, bambini, muli e cani. Scendono veloci dai prati, da tanti sentieri, in spalla portano i fusti da 60 litri, cassa con bottiglioni, qualcuno porta dei mastelli in legno e delle carriole con le damigiane. Arrivano vicino al camiòn, guardano, parlano. Oscar tira con la gomma. Felice fa le prime tare con la stadera a spalla. Molti vogliono assaggiare il vino.
Un anziano con un mantello scuro si avvicina. Con sé ha del pane. L’appoggia su delle pietre, con un coltello taglia un pezzo di mollica lungo dieci centimetri. Tutti lo guardano. Immerge il pane nel vino, dopo due secondi lo estrae. Guarda il colore del pane, non dice nulla. Felice è tranquillo, Oscar un po’ apprensivo.
Due fusti sono già vuoti, con le corde si caricano a basto i muli. Qualcuno è già andato via, qualcuno ha bevuto troppo. Felice conta i soldi.
«.Cosa faceva l’anziano con il pane?.» chiede Oscar. «.Controllava la qualità del vino – dice Felice – se è stato zitto vuol dire che andava bene. Infatti abbiamo venduto quindici brente. Il pane deve restare rosso vivo, non rosso pallido o cupo violaceo. Se l’anziano aveva dei dubbi nessuno avrebbe comperato, da anni fanno così. Andiamo, Oscar: la spalla mi fa male, ho pesato troppo.».
Stroppo, 1952. All’osteria Peirona di Stroppo tutti aspettano Marco, deve arrivare da Elva. Tra i paesi non c’è carrozzabile, ad Elva si arriva solo con la mulattiera e i muli.
Marco ha un negozio ad Elva e un magazzino a Stroppo nella valle. Tutte le settimane viene giù a caricare la roba che arriva dalla pianura. Stamane sulle mule ha caricato formaggio, burro, legna e due pelli di pecora. Arrivato al magazzino saluta tutti, c’è anche Oscar.
«.Che vino hai?.» chiede Marco. «.Barbera – dice Oscar – assaggialo.».
«.Scarico la roba in magazzino, poi vengo a riempire le pelli, le mule non hanno niente da portare nel ritorno.».
Oscar si procura una gomma piccola, il vino inizia ad entrare nell’otre in pelle. «.Attenzione, facciamo uscire bene l’aria dalle pieghe della pelle.» dice Mario. «.Il foro è piccolo e l’aria esce male.». L’otre si sta riempendo. «.Terrà almeno 20 litri.» dice Marco.
«.Come fate a fare queste pelli?.» chiede Oscar. «.Ad Elva molti hanno le pecore, da sempre si fanno recipienti per l’acqua, qualche volta si usano per il vino. Ucciso l’animale si fa un foro nella pelle, in corrispondenza del naso, si introduce un gommino di una pompa tra la pelle e la carne, si gonfia, la pelle si stacca dalla carne, si tira verso il basso rivoltandola. Con dello spago nero si chiudono i buchi della pelle tranne quello che servirà per il riempimento e per l’uscita dell’aria. La pelle si lava con acqua e sale, si fa asciugare, si concia.».
«.Ma il vino a contatto con la lana non prende gusto cattivo?.» chiede Oscar. Mario ride. «.Adesso carico le mule, parto. Ogni volta che mi fermo ne bevo un po’, domani verranno molti amici a trovarmi su ad Elva.».
Demonte, 1954. Il gablè (gabelliere, così erano chiamati i dazieri ancora nel dopoguerra nelle vallate cuneesi) è salito sul camion, lo ha visto arrivare in paese. Deve pagare il dazio come tutti. Oscar non è sul camion, è entrato nell’osteria dell’amico Alfredo, parlano sempre di vino.
Il gablè prende nota di tutto, segna i bottiglioni, le damigiane, i fusti. Incomincia a fare il conto, sistema la carta carbone sul bollettario. Oscar continua a parlare di vino, «.Il Barbera fa dei gradi ed ha molto colore.». Alfredo è interessato, l’operaio che accompagna Oscar conferma. Il gablè ha finito il lavoro, sta per scendere, ha un ultimo dubbio, forse si è sbagliato a contare i casellari dei pintoni, torna in cima al camion.
Oscar saluta ed esce dall’osteria, l’operaio lo segue. «.Sstt… sali sul camion, fai adagio.» dice Oscar. Oscar parte veloce, l’operaio ride, il gablè scivola sui pintoni di Barbera, la carta carbone vola.
Il gablè capisce, urla, nessuno sente. Anche Oscar ride: «.così impara a controllare il mio camion come un cane da tartufi. Lo portiamo fino ad Aisone, in un altro comune non può far niente.».
Oscar ferma il camion, scende, fa finta di andare in un negozio. «.Disgraziati, l’avete fatto apposta, io vi denuncio.».
«.Come, come, lei cosa fa sul mio camion?.» dice Oscar. «.Ero sul camiòn a Vinadio quando siete partiti, l’avete fatto apposta.».
«.Ma scherza… chi l’ha visto, e poi poteva dirmelo che voleva controllare il mio camiòn.». «.Io la denuncio.». «.Stia calmo, ora la riporto a Demonte, salga.». «.No, torno a piedi.».
Nella piazza di Aisone tutti ridono del gablè.