Sin dall’antichità la conservazione del vino veniva affrontata in diversi modi: otri animali e anfore di terracotta precedettero il vetro, seguiti dai fiaschi toscani e le bottiglie.
Con il secolo XIX il vino divenne non solo alimento, ma anche piacere a tavola; di conseguenza si pose il problema di come conservare le bottiglie in modo razionale, onde ottenere con il tempo, un prodotto migliore.
I metodi di passato e presente
Gli infernot, locali sotterranei a temperatura e umidità quasi costante, sono ancora presenti e giustamente valorizzati, anche sul piano architettonico, in molte cantine di Langa e nel resto delle altre regioni vitivinicole.
In cantine di recente costruzione, appositi locali chiamati caveaux giustamente rivestiti, insonorizzati, con porte blindate conservano in condizioni ideali i grandi vini delle mitiche annate, arrivando in alcuni casi anche al secolo XIX.
A Ginevra, considerata la capitale dell’antiquariato enoico, alcuni caveaux superprotetti e super assicurati, conservano selezioni di bottiglie e grandi formati dei miti del Medoc della Cote d’or, della Napa Valley, delle Colline Senesi oltreché Barolo e Barbaresco.
Ma ho visto altre soluzioni originali: a Fontanafredda per anni ho conservato grandi annate di Barolo in formati da circa 5 lt in un apposito locale posto a quota – 7,50; ricordo il compianto Aldo Conterno, che con orgoglio mi fece vedere un locale sotterraneo col pavimento rivestito in sabbia, con dentro affondati sino al collo i grandi formati da 6 litri e qualche quarto di Brenta dell’eccellente Barolo cru GranBussia.
Ho avuto notizie di tentativi di conservazione di bottiglie di spumante in fondo al mare e di magnum di pinot noir in locali a umidità controllata per favorire sviluppo di muffe su soffitti e pareti. Secondo i cantinieri era la condizione essenziale per garantire la tenuta nel tempo dei tappi in sughero.
Il futuro della conservazione?
Al di là dei metodi utilizzati lo scopo è unico: migliorare la qualità del vino, soprattutto sul piano dell’intensità olfattivo e dell’armonia gustativa.
Per questo gli esperimenti continuano, grazie anche alle nuove tecnologie.
Dalla prestigiosa “Ecole de Bordeaux” giunge la notizia di vino conservato nello spazio orbitale. Nientemeno che 12 bottiglie di Château Petrus 2000: tornate sulla terra in gennaio 2021 dopo un viaggio durato 438 giorni e 300 milioni di chilometri in orbita. Sono state ospitate sulla ISSS Stazione Spaziale Internazionale, nell’ambito della missione Wyse per conto della Space Cargo Unlimited, società che si occupa di sperimentazioni in ambito aerospaziale.
Dalle prime analisi sensoriali il “vino dello spazio” offre dei segnali soddisfacenti.
I risultati
Le differenze tra i due Petrus 2000, quello “spaziale” e quello “terrestre”, sono principalmente nel colore, come hanno riportato gli assaggiatori. Il vino che è stato nello spazio presenta più sfumature color mattone chiaro e rosa migliori.
Ma anche sul piano olfattivo e gustativo si sono notate interessanti varianti.
Come ha raccontato Jane Anson, docente alla Scuola del Vino di Bordeaux e firma di “Decanter”, che ha partecipato tra i dodici degustatori:
“Ho visto differenze nell’evoluzione e nel colore del vino. La principale che ho avvertito è stata nelle note floreali, nel caso del “vino spaziale” ho sentito questa caratteristica molto più evidente. Ho trovato un tannino più delicato, rispetto alla muscolarità del “vino della terra”. Ho trovato il Petrus dello spazio invecchiato di qualche anno in più rispetto a quello normale”.
La corsa allo spazio apre scenari poliedrici e neanche immaginabili pochi anni fa, speriamo che anche la vitivinicoltura ne tragga vantaggio?