I drammatici avvenimenti della seconda guerra mondiale, fanno da contorno a questo racconto. C’è il rischio che l’esercito tedesco requisisca impianti e materiali dalle fabbriche. Negli stabilimenti Cinzano di Santa Vittoria d’Alba si nasconde più roba possibile, un muro custodirà un segreto, un intero paese ne è a conoscenza, nessuno parla.
Il fatto ispirerà, negli anni successivi, uno scrittore americano e darà lo spunto ad un romanzo, da cui verrà pure tratto un film: Il segreto di Santa Vittoria.
Dalla viva testimonianza dei protagonisti, la storia di quel muro e di quel
periodo.
Stabilimenti Cinzano, 1937. Paolo tiene per mano il figlio Giovanni, camminano lungo il viale diretti agli stabilimenti, è una bellissima domenica di giugno, so¬no a trenta metri dalla palazzina della direzione.
Paolo saluta un altro operaio. «.Vai a controllare le bottiglie.».
Giovanni è contento, raramente riesce a farsi portare nelle cantine, sono buie e lunghe, ma non ha paura; Paolo suo padre, da anni è il capo spumantisti degli stabilimenti Cinzano di Santa Vittoria.
Sono entrati nelle grandi galle¬rie, piene di bottiglie di spumante, tutte in fila, una sull’altra, disposte in due grandi pignoni. Per terra, ogni tanto, qualche pezzo di vetro rotto.
Giovanni guarda il soffitto, le ragnatele, le luci smorte, i mattoni a vista, è intimorito dalla vastità del locale, dall’enorme numero delle bottiglie. «.Le hanno messe co¬sì, una sopra l’altra? Come avran¬no fatto?.».
«.È un lavoro difficile – dice Pao¬lo – ho imparato da mio padre che aveva lavorato in Francia, da Mercier. Si tira la lignola sulla ter¬ra, si posa la prima fila di bottiglie, poco alla volta in doppia fila. È im¬portante iniziare bene il primo cor¬so, deve essere perfetto, poi si sale, sino ad un’altezza di venti bottiglie; ai lati si mettono subito le stecche di rovere verticali d’appoggio. Sopra il corso di quarantuno bottiglie si mettono i listelli: se ne usano di quattro tipi: il corto, il lungo, il lungo-lungo e quello di ancoraggio alla stecca. I listelli vanno sfasati su ogni corso. Fatto il primo muro, si batte con un asse per spianare le bottiglie, si continua con un altro muro e così via per ottanta metri. In tutto ci sono trecentosessantami¬la bottiglie. Vedi, il pignone non appoggia da nessuna parte, si può girare intorno, dappertutto, sta su da solo.».
«.Se cade?.» fa Giovanni.
«.No, non cade.» dice Paolo.
Stabilimenti Cinzano, 1944. I tre militi della Vehrmacht osservano lo stradone, prima sono passate delle ra¬gazze in bici, anda¬vano alla frazione Macellai a pren¬dere il pane con la tessera annona¬ria. Tra due ore smonteranno il turno, rientreranno a Bra, in caser¬ma.
Arriva Guido, l’addetto alla la¬vorazione dei vermouth, ha una bottiglia. Da qualche settimana i tedeschi sono alloggiati nella pa¬lazzina della direzione, l’ordine è arrivato da Torino, dal comando di Divisione. Cercano di imparare un po’ di italiano, parlando con qualche impiegato.
Guido prepara tre bicchieri. «.Quando parte il vermouth per la Germania?.» chiede. Tra una setti¬mana arriva il vagone cisterna, i soldati cercano di farsi capire, an¬che con dei gesti, «.andrà a Ber¬lino.» continuano i militi.
Stasera Guido informerà Lucia, una staffetta partigiana, forse riu¬sciranno ad impedire che il carico arrivi in Germania.
Hanno scavalcato il muro dalla parte della ferrovia, sono entrati di sorpresa nelle cantine, le operaie li guardano incuriosite. Sono dodici partigiani, vestiti in modo diverso, qualcuno prova anche a parlare te¬desco, per spaventare la gente; portano dei moschetti, solo in due hanno lo Sten, lo tengono bene in vista.
«.Dove sono le bottiglie?.» chiedo¬no. Prendono del vermouth, dello spu¬mante, «.bevete anche voi, quan¬do lavorate non potete – continua¬no a dire – bevete, bevete.».
Girano nei cortili, chiedono se ci sono ancora i tedeschi, ma sono andati via il mese scorso.
«.Li avremmo portati con noi.» dicono i partigiani.
Si sente un colpo, poi altri due. Sparano verso lo stradone. Passa un camion della repubblica, nessu¬no ha risposto alle fucilate, si al¬lontana verso Bra.
«.Avevano paura, sono scappati.» dice un partigiano.
«.C’è un ferito per terra.» dicono. Lo portano dentro, perde san¬gue da una spalla. «.Ma come par¬la? – fa un partigiano – Da dove viene?.».
«.È un russo, sarà un prigioniero di guerra, arruolato forzatamente, chiamiamo Aldo, sa qualche paro¬la, è stato in Russia nella Cune¬ense.».
Aldo si avvicina, cerca di parla¬re, il russo risponde, non si capi¬sce proprio nulla. «.Portiamolo ad Alba, all’ospedale, va curato.».
Aldo sta male, poche parole in russo, tantissimi ricordi tutti tristi, rimossi da qualche mese. Per un’ ora non si capacita: la ritirata nella steppa del Don, il quinto reg¬gimento artiglieria alpina, settima batteria. I compagni morti tra il gelo insopportabile, quante volte ha pensato di farla finita. L’otto settembre al passo della Mendola in Trentino, la fuga verso casa, un ferroviere a Trofarello lo salva dai tedeschi, a Bra un’amica gli dà la prima accoglienza «.come sei diven¬tato vecchio!.», a casa suo padre lo sgrida «.sono già arrivati tutti, sei l’ultimo.».
Aldo non sapeva cosa fare, né dove andare. Il direttore, dottor Alfredo Maro¬ne, lo chiamò: «.De¬ciditi, se vuoi lavorare alla Cin¬zano non andrai in Germania e neanche a fare il partigiano, ti fac¬cio avere la licenza agricola, ma starai solo tre giorni nella cascina, abbiamo bisogno nello stabilimento, tuttofare per ora, poi vedremo.».
Aldo accettò.
Il conte Marone ha radunato i dirigenti, sono a colloquio da un’ora: «.il rischio non è remoto, basta vedere cosa succede nelle altre aziende, a Torino soprat¬tutto.».
«.Non sono d’accordo.» fa uno dei presenti.
Nei reparti, negli uffici, l’attivi¬tà è ridotta al minimo, ogni tanto il direttore dello stabilimento si al¬za, si affaccia alla finestra; è un’abi¬tudine, non c’è nulla da vedere, solo il cortile vuoto, deserto.
«.I tedeschi mandano in Germa¬nia materiale che interessa in qual¬che modo l’industria bellica, cercano macchine utensili, impiantisti¬ca, meccanica; noi facciamo vini, spumanti, liquori, cosa c’entriamo con l’industria di guerra?.» ribatte un dirigente.
«.Chi può dirlo? – fa il conte – ho sentito che la Vehrmacht vuole fare terra bruciata, trasferire gli im¬pianti industriali in Germania, con l’avanzare degli alleati. Dob¬biamo fare qualcosa, ci sono troppi macchinari.». «.E molte bottiglie di spuman¬te.», fa il direttore.
Hanno convocato solo cinque persone, tutti anziani dipendenti. «.La situazione in Italia è critica, l’esercito tedesco potrebbe sequestra¬re del materiale nella fabbrica, per mandarlo in Germania.».
I dipendenti non capiscono; continua il direttore: «.Dobbiamo nascondere più roba possibile; ab¬biamo già avuto in casa i tedeschi, dobbiamo agire con molta discre¬zione, tra voi ci sono due muratori, vi diranno cosa fare.».
Da alcuni giorni sono al lavoro, si alza un muro all’inizio di una delle grandi gallerie, dentro hanno sistemato materiale di ogni genere, soprattutto macchine e impianti per la lavorazione spumanti.
Hanno finito, il muro è alto otto metri e largo sei, hanno an¬che tolto la luce, nelle gallerie re-stano buio e silenzio. Paolo ha aiutato i muratori, adesso è nel cortile della fabbrica, cerca assi lunghe e pesanti. Serviranno per coprire il tutto.
Buttano sabbia, fuliggine, terra, il muro deve rimanere sporco, vecchio, sembrare come gli altri. Appoggiano contro assi, qualche fusto usato, con i cerchi penzolo¬ni, damigiane vuote, mal impa¬gliate, sacchi di tappi usati. «.Met¬tiamo più roba possibile, diamo l’impressione che sia un magazzino di roba vecchia accatastata da chissà quanto tempo; i dipendenti e gli abi-tanti qua vicino, durante i bombardamenti, lo useranno anche come rifugio.».
S. Vittoria d’Alba, 1944. Da un’ora Celestìn guarda verso Alba, Pippo (con questo nomigno¬lo venivano chiamati i piccoli aerei alleati) arriva da quella parte. È sa¬lito sul campanile della chiesa, si¬stemato su una sedia, accanto a lui il tavolo con il martello, spera di non doverlo usare. Guarda la cam¬pana in bronzo, guarda le travi annerite con le ragnatele.
Il tempo passa lento, si annoia. Vede un’ombra, non ha dubbi; prende il martello, batte con tutta la forza la campana, tanti colpi, dieci, dodici, devono sentire tutti, l’aeroplano si sta avvicinando.
Corrono per primi i pochi ope¬rai rimasti nelle cantine, sono an¬ziani; i giovani sono a combattere, le operaie hanno subito smesso di incartare le bottiglie, qualche abi¬tante ha attraversato lo stradone, la gente corre sul viale.
Nel rifugio hanno tutti paura, si guarda chi manca, chi non ce l’ha fatta. Non vedo Giovanni e Paolo «.saranno nella loro cantina.», risponde un anziano.
È buio, l’aria è appena respirabile, ci sono gli sfiatatoi, ma i ventilatori non funzionano, hanno abbassato le torrette esterne, erano trop¬po visibili. Il locale è piccolo ma si¬curo, è una parte della grande gal¬leria scavata sotto la roccia tanti an¬ni fa, «.ci sono dodici metri di terra sopra le nostre teste.» dice un’ope¬raia. Qualcuno guarda le assi appoggiate al muro, sa cosa c’è dietro: tante bottiglie di spumante, tanti macchinari.
La gente inizia ad uscire, è pas¬sata mezz’ora, Pippo è andato al¬trove. Celestìn è tornato sul cam¬panile, guarda verso Alba.
Paolo sposta le assi, libera il mu¬ro. Deve controllare il grande pigno¬ne di bottiglie di spumante murato da mesi, nella grande galleria. Spacca i mattoni, apre un piccolo foro nel muro. Lo accompagna Aldo, il re¬duce della Russia assunto da poco, dovrà imparare il mestiere di spu¬mantista.
Giovanni si china, oltrepassa il piccolo foro, passa appena, ricorda le discussioni dei mesi passati quando hanno tirato su il muro: «.dobbiamo lasciare un passaggio?.» chiedevano. «.No – aveva detto il direttore – se i te¬deschi lo vedono portano via tutto.».
Entrano nel locale buio, l’aria è pesante, c’e un odore particolare, indescrivibile, incombe un senso di paura, di solitudine, di angoscia. Alla debole luce dell’acetilene, dei fili bianchi compaiono dappertutto, scendono dalle bottiglie, dalle assi, fili piccoli leggerissimi, basta nulla per spostarli, il locale è spettrale, polvere, polvere dappertutto, il pi¬gnone non ha fine, la volta è ancor più nera.
C’è umidità, tanta, dà un senso di pesantezza, di soffocamento, l’aria non è mai stata cambiata. Giovanni porta una candela accesa, non gli importa della luce, teme manchi l’aria. Diventa difficile camminare, sul pavimento macchinari, in disor¬dine, dappertutto.
Appena uscito andrà in direzione, «.rimettiamo la luce, i ventilatori de¬vono girare, c’è troppa umidità, le stecche e i listelli si indeboliscono, crol¬la tutto.». Guarda ancora una volta le bottiglie allineate, il grande pignone fatto tre anni prima è stupendo nella sua perfetta geometria, nonostante lo strato di polvere sulle bottiglie; la luce dell’acetilene rende visibili per un attimo i depositi di lievito sul fondo.
Paolo riflette: quanto aveva insi¬stito il direttore, il dottor Alfredo Marone, per salvare i macchinari per il Moscato spumante. Li aveva ideati assieme agli operai, mesi di studio, discussioni, anche accese con i mec¬canici, i capi, anche con Paolo. Erano macchine completamente nuove per un nuovo modo di pro¬durre spumante.
Cadde per terra, una domenica d’estate, camminava verso il dopolavoro, dall’altra parte dello strado¬ne, accorse subito tanta gente, c’era anche il dottor Jona di Bra, non c’è stato nulla da fare.
Santa Vittoria d’Alba, 1958. L’aviatore americano è tornato, dopo molti anni, negli stessi posti, guarda la piana di Pollenzo, il bosco dove è sceso col paracadute, dopo che il suo aeroplano, in missione di guerra, era stato colpito dalla con¬traerea, nel cielo di Torino; ha cerca¬to la cascina dove si era nascosto.
Dalla cinta di Pollenzo aveva su¬bito attraversato il Tanaro, risalendo verso La Morra. Rimase per qualche mese con i partigiani di Mauri, ri¬partì quando a Vesime, in Val Bormida, atterrò il primo aereo al¬leato. Rivede tanti posti: Castino, Cravan¬zana, Cortemilia, cerca un parroco, sale alla canonica di Santa Vittoria.
L’anziano reverendo lo accoglie: «.Lei era con i partigiani.». «.Si, ma sono venuto per un altro motivo. A Bra, un nostro informatore, mi parlò di un segreto custodito da tutta la po-polazione di un paese. È vero che c’erano un milione di bottiglie di spu¬mante nascoste in una cantina?.».
«.Verissimo, tutta la popolazione lo sapeva, nessuno parlò.».
«.Mi interessa, penso di scrivere un libro.».
Roma, Cinecittà, 1967. Giovanni è a Cinecittà, girano un film, porta il titolo di un libro: Il se¬greto di Santa Vittoria. Quante volte suo padre gli ha raccontato del muro costruito dopo l’otto settem¬bre! Giovanni vede comparse, tecni¬ci, scenografi.
Non ha mai capito perché non hanno voluto girare il film a Santa Vittoria d’Alba, dove erano avvenu¬ti i fatti; sono andati a cercare un paese del Lazio, tutto in salita, asso¬migliava ben poco ai posti veri.
Ricostruire una cantina con tan¬te bottiglie di spumante è difficile, nessuno sa da dove iniziare, tutto crea problemi. Il regista vuole gira¬re una scena in cui si fa il remuage alle bottiglie ma manca tutto; Gio¬vanni contatta un falegname, co¬struirà un grande asse su cui siste¬meranno finti fondi di bottiglia.
Giovanni spera di poter vedere i due attori principali: Anna Magnani ed Antony Quinn.