Sono a Torino, in piazza San Carlo: luci sfarzose abbelliscono i settecenteschi palazzi della scuola del Juvara, i portici sono animati, mia moglie con i due figli, ormai grandicelli, osservano una lussuosa vetrina addobbata per il Natale. Paissa è una delle più conosciute enoteche di Torino.
Tante bottiglie di spumante: italiani, francesi, spagnoli, nomi celeberrimi, ben sistemati in mezzo a caviale, foie gras, salmone affumicato e tante altre delicatessen.
In alto un grande Mathusalem domina lo scenario.
Guardo, ma non sono solo interessato ad etichette o confezioni natalizie sempre più eleganti.
La memoria è altrove.
Che cosa rappresenta veramente uno spumante in Piemonte?
Stappi, versi, osservi le bollicine che lentamente salgono nella flute, apprezzi colori, profumi, sapori unici, stupendi, invitanti: la spumante è festa, gioia, convivialità.
Non è soltanto questo: vorrei spiegare ai miei figli, ai loro amici con cui presto festeggeranno il capodanno, idealmente a tutti coloro che acquisteranno delle bottiglie di brut o semisec o cremant cosa rappresenta veramente uno spumante?
In termini di storia, di tradizioni, di lavoro, di professionalità.
Istintivamente la memoria va ad altro: va alla seconda metà dell’800, alle prime cantine di Canelli, ove spumantisti specializzati, meccanici creativi abili imprenditori creavano un colossale sistema sociale ed economico.
Va a vendemmie difficili, a vinificazioni impossibili, a tecniche produttive sempre più affinate, a un mercato molto competitivo, a tensioni sociali e a manifestazioni di piazza.
Intorno alla mia famiglia, idealmente, vorrei avere: Adriano Carelli, Carlin Artusio, Giuseppe Gallese, Giuseppe Cavagnero e altri perché potessero raccontarci un ‘epopea.
Grazie anche a loro, oggi, posso osservare con la mia famiglia la bellissima vetrina di Paissa in piazza San Carlo a Torino.
Le operazioni di “ remuage”: Gallese alla Gancia e Artusio alla Calissano.
Ancora negli anni cinquanta, a Canelli, venivano chiamati champagnisti. Un’elite nel mondo del vino, una vera aristocrazia operaia in possesso di una grande professionalità nelle lavorazione degli spumanti, di una vera passione per il proprio lavoro, non disgiunta da un certo orgoglio.
Il tutto acquisito tramite un duro tirocinio, nel rispetto di antiche usanze e di severi comportamenti in fabbrica, spesso tramandati di padre in figlio.
Ma chi erano? Come hanno imparato il difficile mestiere? Dove hanno fatto il duro apprendistato?
Giuseppe Gallese, nato a Canelli nel 1858, ebbe la fortuna di essere inviato in Francia ad imparare il mestiere alla prestigiosa casa Mercier. Fu uno dei primi cantinieri assunti da Carlo Gancia, quando a Canelli, intorno al 1865, iniziò a produrre spumanti. Non c’era manodopera specializzata.
Il metodo Gallese fu utilizzato dapprima a Canelli ed in seguito, portato da Giovanni Gallese, fratello di Giuseppe, alla Cora ed alla Cinzano; fu il metodo maggiormente utilizzato dagli spumantisti sino agli anni sessanta.
Si caricavano le pupitres con le bottiglie preventivamente agitate per risollevare il deposito (coup de poignè) l’inclinazione era minima -circa 10 gradi.
Dopo circa 5-6 giorni, il deposito – chiamato spina di pesce – si riformava, veniva allora marcata la posizione di lavoro con un segno di gesso sul vetro, in corrispondenza della precedente posizione del deposito.. Iniziavano allora, con cadenza giornaliera movimenti di scuotimento a carattere oscillatorio, mentre ogni tre-quattro giorni si imprimevano movimenti rotatori, aumentando un po’ l’inclinazione e seguendo inizialmente il senso antiorario per poi ritornare qualche volta indietro ovvero in senso orario -da qui il termine utilizzato comunemente in cantina “barchetta”.
La bottiglia assumeva gradualmente inclinazione maggiore, per finire a 60 gradi e nel giro di 25-30 giorni, l’intero deposito scivolava, nel collo.
Carlo Artusio (Carlin), nato ad Alba nel 1900,,iniziò a lavorare alla Calissano sin dalla giovane età.
Perfezionò il metodo Gallese, imprimendo alle bottiglie sulle pupitres un movimento verticale dall’alto al basso, il contraccolpo esercitato provocava lo slittamento del deposito sulla parete della medesima, in tal modo si riduceva sensibilmente il tempo di permanenza della bottiglia sulla pupitres..
Detto metodo si è dimostrato più semplice e meno laborioso, Carlo Artusio fu maestro di molti spumantisti, presso le ditte Cora, Serafino, Carretta, Fontanafredda, Calissano.
Innovazione negli spumanti: tecnologia d’assalto
Uno spumantista in grado di effettuare il” degorgement a la volè ? Non lo trovi più.
Il motivo è semplice: nessuno glielo insegna, nelle cantine non si effettua la difficile operazione.
Negli ultimi venticinque anni il settore ha avuto un’enorme innovazione tecnologica: congegni elettronici ed informatici negli impianti sostituiscono l’abilità manuale, i gesti precisi, ripetuti, dei vecchi spumantisti.
Emergono tra gli addetti altri tipi di professionalità, l’immagine tradizionale e poetica del metodo champenois si perde nei percorsi obbligati del turismo enoico.
Il remuage è stata la prima operazione interessata all’innovazione: sin dagli anni sessanta chiarificanti complessi tipo Bolan, Mazure, facilitarono enormemente le operazioni manuali, riducendo anche i tempi di lavoro.
In seguito Giropallets e Pupimatich sostituirono le mani dell’operaio specializzato nel remuage, i cicli produttivi computerizzati, duravano pochi giorni.
Anche per il degorgemet a la glàce impianti sofisticati stappano simultaneamente dieci bottiglie con alta produttività.
Oggi nelle grandi maison spumantistiche si elimina del tutto l’operazione di remuage con l’uso dei lieviti inclusi e floculanti.
Moscato: nuovi sistemi di lavorazione
Dagli anni ’80 la disponibilità di freddo e di contenitori condizionati, permise la sedimentazione statica del moscato senza aggiunta di chiarificanti.
E’ tenuto per 48 ore a bassa temperatura, per facilitare la precipitazione dei torbidi e solidi in sospensione.
Si diffuse anche l’uso della flottazione per la “coperta “del moscato
Un gas inerte, di solito azoto, era insufflato nel prodotto chiarificato.
Il gas trascinava in superficie i floculi che potevano essere eliminati con procedure manuali o automatiche.
Altre tecniche in sintesi:
-Iperossidazione: uno studioso tedesco – Muller Spaat -negli anni sessanta preconizzò, in vinificazione, l’utilizzo di ossigeno o in alternativa l’assenza di anidride solforosa, al fine di ossidare i composti del mosto, garantendo così la stabilità finale al vino.
Oggi è praticamente abbandonata.
-Macerazione pellicolare: prevede il contatto, a bassa temperatura (2-4 gradi), per una durata di 18 – 24 ore del mosto con le parti solide dell’acino. Si estraggono in tal modo più aromi.
Richiede complesse e costose attrezzature.
-Enzimaggio: i vari enzimi facilitano la decantazione e la pulizia dei mosti in quanto rompono le catene peptiche che rendono densi e viscosi i mosti.
-Fecero comparsa -provenienti dall’industria dei succhi di frutta- i filtri sotto vuotoper i moscato fecciosi o molto torbidi.
Il vino feccioso aspirato in un cilindro, attraversa uno stato di materiale filtrante che provvede a trattenere solidi e materiali vari.
-Per finire un cenno alle tecniche sottrattive d’acqua utilizzate anche per il moscato da alcuni anni: osmosi e crioconcentrazione eliminando acqua dal mosto, di fatto concentrano il resto, zuccheri, aromi acidi e….. ovviamente difetti se esistono.
Oggi è Alta Langa
Quanti nomi in etichetta, sulle scatole, nelle fatture, ripetuti chissà quante volte, nei tanti messaggi, pubblicitari, nei vecchi dancing o davanti al balcone di un wine bar.
La storia del Piemonte spumantistico scorre in poche righe: Contratto Brut For England, Pinot de Pinot Gancia, Cinzano Marone pas dosè, Contessa Rosa Fontanafredda, Duca d’Alba Calissano, President riserve Riccadonna, Maximilian I Barbero, Montelera riserva Martini, Tosti Gi. Bo. e altri.
Molti continuano, altri restano nella memoria.
Oggi si chiama Alta Langa l’erede della grande tradizione spumantistica piemontese: Uno spumante che tutti auspicano diventi celebre… Doc dal 2002; è prodotto con un rigido disciplinare di produzione che prevede l’utilizzo di uve pinot nero e chardonnay al 90 %, basse rese in vinificazione e la spumantizzazione con il metodo classico.
Il territorio interessato riguarda le province di Cuneo, Asti e Alessandria.
La coperta del moscato
La coperta del moscato: l’incubo di intere generazioni di moscatisti. Quando non c’erano nè frigo, né flottatatori, nè enzim. C’era solo la tua abilità.
Se la coperta non veniva, se scappava era un danno economico, era un pasticcio.
Era un attimo, era una lotta di nervi, occorreva guardare il moscato chiarificato con tannino Lepetit e colla di pesce Saliansky e capire il momento giusto. Prima no! Il mosto era ancora torbido, dopo..beh…… fermentava e addio lavoro. Una schiuma appena visibile..ecco era il momento….
Iniziava il salto. Ma se erravi compromettevi il lavoro e per… interi giorni
Sant’Antonio di Canelli – cascina Bera- 1917
“Livia sale ancor una volta la ripida scala in legno, vuole controllare il livello della vasca.. Scivolare è facile, con quello strato sottile, invisibile di Moscato che è dappertutto, sul pavimento, nelle mani, nei vestiti, nell’aria.
Con le dita, delicatamente, sposta lo spesso strato superficiale, sotto il liquido per il momento è calmo. Livia sa che è questione di attimi, non deve assolutamente rischiare, guai se inizia a muoversi ed intorbidirsi, non si fermerebbe più.
Torna sotto, prende la pesante sveglia in mano, cerca di regolare la suoneria, ma per quanto? mezz’ora? basterà?, ci ripensa, solo quindici minuti. Si butta su un vecchio pagliericcio bucato, è troppo stanca, piena di pensieri, resta sveglia. Sarà così per alcune notti, è il periodo delle coperte. «.Il più brutto.» diceva suo padre
Livia è di nuovo vicino alla vasca, osserva la coperta, lo spessore dello strato marrone sembra aumentato, anche il colore è uniforme. È il momento decisivo, il Moscato va controllato a vista, appena iniziano a vedersi in superficie accenni di crepe o tagli, bisogna aprire il rubinetto in bronzo enologico e tirare il Moscato nella vasca di sotto, altrimenti fermenta e addio coperta”.
La filtrazione con i sacchi olandesi.
La filtrazione con i sacchi olandesi o in certi casi con i molton: quando in gioco c’era tutto. I quintali del tuo moscato, quindi il suo valore. E quando finivi dovevi subito ricominciare, un’altra vasca fermentava diventava “amara”, valeva poco o niente. Prima dovevi lavare i sacchi, l’acqua gelida del Belbo, in dicembre, seccava le mani.
“In certi giorni il Belbo era color giallo” ricorda un anziano.
Ma era la tua vita, era il tuo moscato.
Strevi 1930
..” si aprono i rubinetti dei filtri sistemati sotto la vasca e il Moscato inizia a passare.
E’ la filtrazione con sacchi olandesi.
Sono detti così perchè la tela è di qualità eccellente, la indossavano i marinai delle regia marina olandese nei secoli scorsi.
Il collo si lega con un cordino detto “ tramigna “.
Per legare bene il sacco nella parte inferiore si fissa il cordino ad un chiodo e poi si rotola il sacco perché chiuda bene.
Il sacco si fissa al rubinetto in bronzo.
Per lavarli si va nel vecchio canale del mulino.
Si è in stagione invernale, fa freddo, l’acqua gela subito le mani, devi abituarti al freddo, non hai scelta..
Il lavoro più faticoso consiste nel rivoltare la tela, si infila la mano nel collo e si estrae il tessuto..
Si lava bene in acqua corrente e si sbattono i sacchi su grosse pietre sistemate sul greto”.
I primi filtri. Le prime presse
Alla fine anni ’50, inizio anni ‘60 arrivarono nella zona del moscato i primi filtri Gasquet, Gianazza e Dal Cin e le prime presse orizzontali Vaslin con la gabbia di legno e le catene in ferro. Il timore del moscato che fermenta e quindi perdere un anno di lavoro e fatica rimasero solo un ricordo.
Strevi – Cantine Marenco anni ‘60
“..E’ arrivato il nuovo filtro, è costruito dalla Dal Cin di Milano.
Sostituirà i vecchi sacchi olandesi da sempre usati.
Giuseppe lo guarda, una macchina rettangolare con dei telai in metallo e una grossa pompa., color verde; è montato su ruote.
E’ stata una scelta obbligata, ne hanno discusso a lungo, ormai sono diffusi in molte cantine, c’è molto risparmio di tempo, di lavoro, di fatica.
La qualità del moscato verrà salvaguardata, addirittura migliorerà.
Quel gocciolamento continuo causato dai sacchi olandesi, arieggiava troppo il mosto e alcuni profumi si perdevano.
Il nuovo filtro ha le tele in acciaio inox, utilizza come materiale filtrante una farina fossile a base di diatomee proveniente dal monte Amianta, si chiama Randal uno.
..Giuseppe o cambierà anche il torchio. Ne possiede uno meccanico, con la leva in legno occorre “dare “piu’ volte per esaurire la vinaccia, un lavoro muscolare enorme, senza contare le operazioni di carico e scarico completamente manuali. Il nuovo torchio orizzontale si chiama Vaslin, e viene dalla Francia.
Le prime autoclavi per spumanti alla Cora
Fu l’ astigiano Francesco Martinotti a utilizzare, per primo, un‘autoclave, per la produzione di spumanti. Ma nel 1907 l’ingegner Eugenie Charmat brevettò il metodo e iniziò a diffonderlo nelle cantine.
Cora 1932
“ E’ l’impianto originale Charmat, acquistato in Francia nel 1922. Oggi in Piemonte ce ne sono tre. Uno si trova a Pessione alla Martini & Rossi, l’altro è a Serralunga nelle cantine di Fontanafredda..
Beppe guarda in giro, cerca di capire. «.Ci sono due tipi di autoclavi: le più grandi da 44 ettolitri servono per la fermentazione, le più piccole da 22 ettolitri si usano per la refrigerazione. Sono in ghisa smaltata a fuoco, dentro sono color bianco, sono collaudate a 12 atmosfere, ma resistono molto di più. Ci sono tre rubinetti in bronzo enologico con attacco a vite. La soluzione refrigerante è di acqua e alcool metilico, arriva a venti gradi sotto zero. Intorno alle autoclavi c’è una parete isolante in sughero. Si vede una targhetta: “Sociètè Française pour la fabbrication industrielle des vins naturels”.
Spumanti piemontesi: come si producevano
Racconta un anziano enologo che iniziò a lavorare alla Cora nel 1932
“Ricordo le Girondine francesi, oppure le Jaghemberger tedesche, c’ erano anche le Chelle o le Ierodolle per imbottigliare, le Lemaire e le Grillat Jaeger per i tappi e le gabbiette, rare le macchine italiane,la tireuse per spumanti della Colombo a sei becchi era in uso alla Martini e Rossi”.
Il settore, nel dopoguerra, esplode soprattutto a Canelli: Tommaso Culasso consegna alla Gancia la prima riempitrice, è la capostipite delle famose Omec isobariche in competizione con le affermate Seitz tedesche. Alla Luigi Bosca nell’estate del 1946 arriva finalmente la prima autoclave italiana ( Gianazza). Siro Aliberti costruisce autoclavi (Ariano 1949) e in seguito il primo originale pastorizzatore a immersione.
A Canelli verranno in seguito Cavagnino e Gatti e Robino e Galandrino: nasce un formidabile indotto tecnologico che ancora oggi è vanto della città.
Nel dopoguerra il settore spumantisco sul piano dell’organizzazione del lavoro e dell’impiantistica è abbastanza arretrato: il taylorismo si è ormai diffuso in Europa, ma alla Cinzano nel 1935 le etichette sugli spumanti si mettono ancora a mano; interessanti le testimonianze riguardo alle difficoltà e alle professionalità del lavoro manuale.
Fontanafredda anni ‘50
“La tireuse era a mano, una Colombo di Torino a sei becchi.
Ogni bottiglia veniva sistemata sul suo rubinetto muovendo la protezione, si lasciava entrare l’aria compressa e quindi lo spumante, infine si apriva di nuovo la pesante protezione, si toglieva la bottiglia che veniva subito sistemata in un tourniquet……..usavamo una gabbiettatrice francese semiautomatica. All’inizio si metteva la gabbietta sopra il tappo, si schiacciava, si piazzava la bottiglia su un apposito piattello, si spingeva su. Quattro graffe spostavano la gabbietta sotto la baga della bottiglia, un gancio prendeva il filo della gabbietta e lo tirava attorcigliando a baffo.. Con una taglierina si mozzava il filo del baffo, quindi si prendeva la bottiglia, la si appoggiava su un piano orizzontale e con un martello in legno si batteva l’occhiello…”
…”Ci sono da mettere i trapezi d’argento alle mezze bottiglie d’Asti spumante. La capa chiama Maria: «.Senta, è un lavoro difficile, di precisione. Per questo chiamo lei, mi raccomando.».
Maria mette i trapezi di carta argentata sull’asse della colla; dopo un minuto li stacca, li sistema sulle mezze bottiglie, con le mani fa quattro pieghe longitudinali a ogni trapezio per adeguare la carta alla conicità del collo della bottiglia. Poi liscia bene i trapezi in modo che aderiscano perfettamente al vetro”.
Oggi alla Diageo
..La Diageo Operations Italy ha la sua sede ed lo stabilimento produttivo in Santa Vittoria d’Alba.
Sono attualmente installate 2 linee da 60000 bottiglie /ora che mediamente producono ciascuna 800/900 mila bottiglie al giorno di bevande a 5% alcol su 3 turni di lavoro per 5 o 7 giorni alla settimana.
”….Questi volumi produttivi richiedono già dal momento della progettazione della linea una attenta valutazione dello spazio in cui verrà inserita ( 900/1000 m2), il suo baricentro rispetto agli afflussi delle materie di imballaggio ed il migliore lay-out per garantire l’efficienza programmata…
Prima del gruppo di riempimento è installato il controllo elettronico delle bottiglie vuote……
… Si arriva dunque al “cuore” della linea e cioè al gruppo di riempimento che in monoblocco è costituito da sciacquatura, riempimento e tappatura … nella riempitrice isobarica a 120 becchi il livello di riempimento avviene elettronicamente con la lettura di un tempo impostato nel plc tramite una sonda di triggeraggio inserita nella canula di riempimento, inoltre non esiste più il cambio formato tradizionale per livelli di riempimento diversi…..”
Il primo inox- Fontanafredda 1964
Con l’inaugurazione del nuovo stabilimento di produzione delle cantine di Fontanafredda in Serralunga d’Alba, l’inox entrava in enologia anche in Italia..
Una scelta determinata dal direttore tecnico di allora, il dott. Giuseppe Crestodina.
“Sino agli anni ’60 in tutte le cantine il moscato si conservava dolce e in vasche di cemento non coimbentate.
La necessità di evitare cessioni di metalli al vino motivarono la scelta verso un contenitore che fornisse le massime garanzie in fatto neutralità verso il vino e di massima igiene.
L’impianto fornito dalla SIAI –LERICI, era molto semplice, serbatoi da 175, 330 e 660 hl..
Pochi gli accessori e tutti in bronzo enologico, due valvole da 40, livello e preleva campioni.
.L’acciaio era del tipo AISI 316 -.8 – 18 con uno spessore notevole della lamiera = mm
Sin dall’inizio l’esito fu soddisfacente, il moscato in vendemmia venne fatto fermentare sino a 5 gradi, una grande innovazione per quei tempi.
Quindi venne conservato in acciaio e a bassa temperatura sino alla spumantizzazione.
I risultati principali si ebbero nel limitati valore in ferro e rame e nel basso valore in calcio -praticamente quello del mosto in vendemmia.
Gli enologi dello spumante
Quanti nomi: Mignone alla Cinzano, Marengo alla Riccadonna, Ferrando alla Gancia, Berruti alla GiBo, Paschina alla Bosca, Currado alla Barbero, Crestodina a Fontanafredda, Sartoris alla Cora,Rolla alla Calissano, Bosio alla Contratto. Qualcuno ci ha lasciato, ma altri giovani enologi continuano l’opera
Lanati all’Enois sperimenta l’evoluzione dell’Asti, Paola Manera alla Sinergo analizza i composti del moscato passito, Bosticardo insiste nell’Asti metodo classico.
Avrò certamente dimenticato dei nomi..chiedo scusa
Invece uno lo vorrei ricordare in modo particolare parlando di spumanti: Giuseppe Cavagnero
Un carisma formidabile.: nell’assaggio, nel lessico, nella professione.
Alla Martini e Rossi, al Consorzio dell’Asti, in una qualsiasi cantina.
Cinquanta anni di esperienza, di professionalità, tra autoclavi, laboratori, mosti, uve, vendemmie, tra tecnica e passione.
“ Nel 1943 iniziai a lavorare con la Martini e Rossi nella loro cantina di Greve in Toscana. Nel 1944, dopo aver superato la linea gotica ed aver rischiato l’arresto da parte delle forze della R.S.I. perché non ero sul fronte a combattere contro le truppe alleate, rientrai a Pessione ( To ) alla sede principale della ditta, rimasi li sino al 1989.
Ho sempre imbottigliato Asti senza pastorizzare, usando tutte le precauzioni , per avere il minimo inquinamento.
Usavo candele porose originali belghe che garantivano un passaggio molto stretto, prima mettevo un filtro a cartoni Seitz..
Cercavo di avere della solforosa libera e poco azoto assimilabile.
I controlli: microscopio con visione diretta, allora non c’erano le tecniche di contrasto luminoso, in laboratorio ricordo all’inizio un certo Ferraris e in seguito Prandi, erano molto professionali”.
Asti: uno spumante con le tre T
“Chiedetelo alla stazione ferroviaria di Asti “, così un vecchio depliant del Consorzio Tutela degli anni ‘ 50.
Negli anni ’80 ci fu il bellissimo slogan “ Asti spumante: unico e irripetibile”.
La nuova campagna promozionale natalizia lancia un preciso messaggio: “Asti docg la dolcezza nasce dalla terra “, una perfetta sintesi delle tre T.
Terra, tradizioni, territorio: il valore di eccellenza per tutta la sua filiera.
Finestra
1-Dove fallì l’esercito tedesco
Un film sul vino, di notevole valore storico e culturale, è sicuramente il “ Il segreto di Santa Vittoria”: una storia vera con Anna Magnani ed Antony Quinn.
Raccontò come un intero paese in provincia di Cuneo, appunto Santa Vittoria d’ Alba, raggirò l’esercito tedesco che non riuscì a portare in Germania nemmeno una bottiglia di spumante, ma soprattutto vennero salvaguardati impianti e attrezzature.
Tutti sapevano, tutti, dal semplice cantiniere al titolare, il conte Alfredo Marone, dal maresciallo all’ostetrica, tennero la bocca chiusa.
Anni dopo la brillante operazione riuscì meravigliosamente al dio denaro, ma non c’erano più altezzosi e scattanti ufficiali del terzo Reich, bensì sconosciuti manager di qualche holding, con lussuosi uffici direzionali in lontani paesi. Oggi a Santa Vittoria resta nulla della gloriosa Cinzano: il marchio sui muri, le uve moscato, l’identità tra paese e fabbrica, “ company town “ cancellata.
2 -Il sistema misto
Fermentazione in bottiglia o autoclave?
Esiste anche il sistema misto detto Marone -Cinzano dal suo inventore.
Santa Vittoria d’Alba, stabilimenti Cinzano, 1927.
“… è un’importante innovazione, hanno provato molte volte; oggi per la prima volta sono in produzione. Nel locale non si può entrare, tutto deve restare segreto, per pochi addetti.
I meccanici hanno costruito in fabbrica le macchine da utilizzare, anche loro sono vincolati al segreto aziendale.. Il metodo è semplice ed ingegnoso. La fermentazione del vino avviene in bottiglia, lo stesso vale per la conservazione, un travaso isobarico autoclave sostituisce le operazioni finali del remuage e dégorgement. Sono tutti contenti, Alfredo, gli enologi, Paolo guarda le bottiglie prodotte, non pensava andasse tutto così bene”.
Lo spumante in autoclave seguiva il normale processo Charmat, quindi veniva filtrato e imbottigliato. Da anni il sistema misto, in Italia, non è piu’ usato.
Articoli stupendi grazie sig. Tablino!!