San Martino nella memoria rurale
La data dell’11 novembre, dedicata al Santo Martino, un militare romano che divise il suo mantello con un viandante seminudo – sec IV d.c., ha assunto nel tempo poliedrici significati.
Specialmente nel mondo rurale: infatti, in quel giorno avevano fine (e inizio) i contratti di mezzadria. Ma il termine, nel comune senso lessicale, significava un autentico dramma per il mezzadro e i suoi famigliari. Erano costretti a lasciare la cascina, ove avevano vissuto e lavorato da anni, perché era stato disdetto il contratto da parte del proprietario dei beni. Di fatto facevano “San Martino”.
Non era difficile, sino agli anni ’50 del secolo scorso, trovare, nel giorno citato, carri trainati da buoi con poche e povere masserizie. Accanto, famiglie numerose con i volti rattristati, si spostavano da una collina all’altra, alla ricerca di una nuova, difficile e soprattutto precaria esistenza.
Le origini della mezzadria risalgono al basso Medioevo, come usanza inquadrata nel sistema feudale. In Italia fu particolarmente importante in Toscana, anche in Piemonte era diffusa.
Il contratto di mezzadria è stato al centro di polemiche, tensioni, lotte, interventi legislativi tra sostenitori e avversari.
Questi ultimi ritenevano la mezzadria un’istituzione negativa per il progresso agricolo nel suo insieme.
Inoltre in molte occasioni il contratto tra le parti era complesso e comunque poco favorevole al mezzadro. Non solo per la ripartizione dei prodotti agricoli principali, uve o cereali; spesso si dovevano dividere anche produzioni minori, di scarso valore economico, ma importanti per la moglie del mezzadro per far quadrare pranzo e cena. Erano soprattutto le regalie che il mezzadro era obbligato, stanti rigide e anacronistiche norme contrattuali, a consegnare alla famiglia del padrone, in specie durante i periodi in cui, con la famiglia, risiedeva in cascina.
Il massaro darà dodici pollastri grossi ed otto capponi nelle epoche da stabilirsi dal padrone, e trecento uova da consegnarsi nei mesi in cui la famiglia del padrone sta in campagna, eccetto i capponi da mandarsi nell’inverno a Torino. (…) Il massaro farà il bucato ed il pane per il padrone per tutto il tempo della sua permanenza in campagna. Il massaro, prima del raccolto delle uve, raccoglierà un cestino di uva nera e due di uva bianca e la farà seccare nel forno per conto del padrone” (contratto di mezzadria a Dogliani – 1901).
Non a caso le lotte mezzadrili sono state un momento fondamentale nella crisi del mondo rurale del dopoguerra, soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna. Molti scrittori e alcuni film ne hanno tratto spunto in bellissime opere. I motivi delle lotte erano principalmente due: le percentuali del riparto tra il mezzadro e il proprietario terriero e l’affermarsi di una generazione di giovani che non intendeva più vivere nelle difficoltà della famiglia contadina.
In vero la politica dei governi italiani nel dopoguerra favorisce il processo d’industrializzazione, necessario per la ricostruzione post-bellica.
Tutto il settore agricolo entra in crisi, la mezzadria non fa certo eccezione.
Nonostante i riparti dei beni agricoli più equi per il mezzadro, garantiti dal lodo De Gasperi del 1947, la mezzadria non sembra più in grado di garantire un reddito e una vita dignitosa a chi coltiva la terra.
Collassa rapidamente e per diversi motivi. Nel 1964 – in parte – e nel 1982 venne del tutto abolita. I mezzadri saranno inesorabilmente risucchiati nella società industriale e abbandoneranno quasi interamente le campagne che, fino a poco tempo prima, erano state, nel bene e nel male, il loro mondo e la loro vita.
Gli anziani raccontano la mezzadria
La dura condizione dei mezzadri, la precarietà del lavoro e del reddito, talora la prepotenza del proprietario, portavano spesso a liti e tensioni, anche di lunga durata, oppure all’arte di arrangiarsi, usando un po’ di astuzia. Il tempo non ne ha certo cancellata la memoria. Ancora oggi gli anziani raccontano ai giovani quei difficili e particolari momenti.
Ecco qualche spunto di varia umanità mezzadrile.
La pesante cesta di pere e le irresistibili ciliegie
Alba 1951
Non dava tanto fastidio la divisione a metà dei prodotti principali, non trovavo giusto che i frutti migliori, le cosidette primizie, fossero consegnati al proprietario. In fondo noi sudavamo tutto l’anno in cascina.
Il proprietario, un avvvocato di Alba, veniva spesso in cascina, posta sulla strada Serre in frazione Madonna di Como. Portava con se una grande cesta di vimini, noi dovevamo riempirla delle pere più belle.
Soprattutto trovavo ingiusto che mio figlio, un ragazzino di sette anni, dovesse portare la cesta sino ad Alba, accompagnando l’avvocato nella sua abitazione.
La cesta era molto pesante e per mio figlio grande la fatica.
Alba 1952
Guai se raccoglievamo le ciliegie. Sui rami del grande albero i frutti erano molti belli, facile immaginare fossero molto dolci. Mio padre continuava a ripetere: le prime sono per l’avvocato di Alba. Come potevano due bambini resistere a tale bontà. Avevo 10 anni, con mia sorella di 12, un po’ più grande di me, studiammo questo stratagemma.
Lei camminava avanti, io dietro. I miei piedi si posavano sulle sue orme in modo da non lasciare molte tracce sul terreno.
Arrivati alla pianta, raccogliemmo qualche frutto qua e la. Pochi, per non far sembrare il ramo spoglio. Le ciliegie erano buonissime e le gustavamo lentamente.
Nel ritorno avevamo l’accortezza di passare sulle orme lasciate all’andata, io davanti, mia sorella dietro con il compito di cancellare con rami di una siepe ogni traccia di orme sul terreno.
Guai se mio padre si fosse accorto che eravamo andati al ciliegio, ci avrebbe subito preso a schiaffi.
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