Spumanti: umanità, lavoro e cultura. Tre articoli-racconti sulle origini degli spumanti in Italia e sul difficile e complesso lavoro degli addetti a questo specifico settore lungo l’intero processo di lavoro ( 1865 – 1950). Con dei contorni interessanti: la professionalità operaia, una vera aristocrazia del lavoro, le difficile e faticose operazioni manuali, le prime innovazioni in cantina, i piccoli e grandi avvenimenti della storia.
I GRANDI SPUMANTISTI
Si racconta che fu un’ abile imprenditrice francese, rimasta vedova in giovane età, a sperimentare la rotazione delle bottiglie di spumante, Ovvero quella serie di complessi movimenti – detti comunemente remuage – finalizzati all’eliminazione dei depositi formatisi nel vino dopo la rifer-mentazione.
Siamo a Reims, all”inizio dell’Ottocento, da più di un secolo si produceva Champagne, ma sino allora le bottiglie venivano vendute… e consumate più o meno torbide. La storia dice che la vedova – madame Clicquot-Ponsardin, il cui nome oggi è prestigiosa marca di Champagne – ideò l’operazione, aiutata dal suo capocantina ed utilizzando all’uopo un tavolo da cucina ovviamente forato.
Semplificando: venivano impresse alle bottiglie capovolte dei movimenti rotatori-oscillatori; il deposito di lievito veniva gradualmente fatto scivolare lungo la parete della bottiglia sino a farlo depositare sul collo vicino al tappo. L’eliminazione del deposito avveniva successivamente con il cosiddetto degorgement.
Le operazioni di remuage si perfezionano ulteriormente nel secolo scorso, unitamente a tutta la tecnica di lavorazione degli spumanti, ma rimasero comunque lunghe e difficili ed anche non prive di pericoli; richiedevano pertanto manodopera specializzata ed appassionata. Con il tempo era inevitabile il formarsi nell’industria spumantistica di una vera e propria “aristocrazia operaia”, in possesso di una enorme professionalità, non disgiunta da un grande orgoglio per il loro lavoro: Champagnisti.
Ma chi erano? Come hanno imparato il difficile mestiere? Dove hanno fatto il duro apprendistato? Come è stata negli anni l’evoluzione del lavoro?
Ricorderemo tre di loro: Giuseppe Gallese, Carlo Artusio e Pietro Colla, rispettivamente capospumantisti alla Gancia, alla Calissano ed alla Martinazzi. Il ricordo è doveroso, se non altro, per tutti gli insegnamenti che – pur nella diversità del metodo applicato – hanno dato ad intere generazioni di spumantisti; ancora oggi, in Piemonte, i cantinieri addetti alla lavorazione degli spumanti, utilizzano in vario modo i loro insegnamenti.
Giuseppe Gallese, nato a Canelli nel 1858, ebbe la fortuna di essere inviato in Francia ad imparare il mestiere alla prestigiosa casa Mercier. Fu uno dei primi cantinieri assunti da Carlo Gancia, quando a Canelli, intorno al 1865, iniziò a produrre spumanti. Ma non c’era manodopera specializzata, lo stesso Gancia aveva fatto apprendistato in Francia, presso la casa Piper Heidessek.
Il metodo Gallese fu utilizzato dapprima a Canelli ed in seguito, portato da Giovanni Gallese, fratello di Giuseppe, alla Cora ed alla Cinzano; fu il metodo maggiormente utilizzato dagli spumantisti sino agli anni sessanta.
Lo descriviamo nella sua attuazione originale, probabilmente appresa nello Champagne intorno al 1880-82: si caricavano le pupitres con le bottiglie preventivamente agitate per risollevare il deposito (coup de poi¬gné) l’inclinazione era minima, circa 10 gradi.1.
Dopo circa 5-6 giorni, il deposito, dai cantinieri chiamato spina di pesce, si riformava, veniva allora marcata la posizione di lavoro con un segno di gesso sul vetro, in corrispondenza della precedente posizione del deposito. Si controllava che nella metà superiore della bottiglia non ci fossero assolutamente residui anche leggeri.
Iniziavano allora, con cadenza giornaliera, movimenti di scuotimento a carattere oscillatorio, mentre ogni tre-quattro giorni si imprimevano movimenti rotatori, aumentando un po’ l’inclinazione e seguendo inizialmente il senso antiorario (nor¬malmente 1/8 di giro d’orologio), per poi ritornare qualche volta indietro ovvero in senso orario, da qui il termine utilizzato comunemente in cantina “barchetta”.2. La bottiglia assumeva gradualmente inclinazione maggiore, per finire a 60 gradi e nel giro di 25-30 giorni, l’intero deposito scivolava nel collo. Questo metodo richiedeva un polso molto adde¬strato.3.
Carlo Artusio (Carlìn), nato ad Alba nel 1900, seguì le orme del padre, iniziando a lavorare alla Calissano sin dalla giovane età. La Calissano, situata alla periferia di Alba, produceva uno spumante chiamato Duca d’Alba.
Autodidatta, Artusio perfezionò il metodo Gallese, imprimendo alle bottiglie sulle pupitres un movimento verticale dall’alto al basso; il contraccolpo esercitato dalla caduta della bottiglia provocava lo slittamento del deposito sulla parete della medesima, in tal modo si riduceva sensibilmente il tempo di permanenza della bottiglia sulle pupitres. Il vino doveva essere stato in precedenza trattato con bentonite o altri chiarificanti, onde interporre tra la parete di vetro e il deposito di lievito sostanze separanti antiadesive.4. Il senso di rotazione della bottiglia era sempre orario.
Questo metodo si è dimostrato più semplice e meno laborioso, con conseguenti risparmi di costi. Carlo Artusio fu maestro di molti spumantisti, presso le ditte Cora, Serafino, Carretta. Un suo allievo, Gonella, operò per molti anni alla Calissano, mentre le maestranze di Fontanafredda, all’inizio degli anni cinquanta, iniziarono a produrre il Contessa Rosa, uno spumante classico sotto l’egida di Carlo Artusio e di suo figlio Luigi, assunto proprio in quegli anni come enologo presso la casa vitivinicola di Serralunga d’Alba. Fu anche insegnante teorico-pratico presso la cantina della scuola enologica di Alba.
Pietro Colla (Pierìn), nato a Brescia nel 1894, si trasferì giovanissimo a Canelli presso uno zio che lavorava alla Gancia. Assunto presso l’azienda canellese, acquisì professionalità sotto la guida di Giuseppe Gallese, capospumantista. In seguito si specializzò nella lavorazione del Moscato cham-pagne con due maestri di eccezione: Carlo Mensio e Giacinto Strucchi. Negli anni venti alla Gancia si stava mettendo a punto la tecnica di lavorazione razionale del moscato, mediante l’abbassamento con ripetute filtrazioni dei livelli azotati.
Autentico moscatista ripeteva più volte: «.un buon moscato deve fare 7 di alcool, 7 di beaumé e 7 di acidità, è la regola dei tre sette.». Praticamente arrivava a 14,5 di alcool complessivo: altri tempi, altre vigne.
Abilissimo nel degorgement a la volé, con un controllo perfetto dei movimenti manuali e dei tempi di esecuzione, Pietro Colla, nel 1922, si trasferì a Torino, dapprima presso le cantine Martinazzi ed in seguito presso gli stabilimenti Ferrero; in queste aziende con la qualifica di capo spumantista, insegnò il difficile mestiere alle giovani leve.
Nel dopoguerra ritornò a Santo Stefano per dedicarsi all’agricoltura, ma la passione per gli spumanti era tale che, nel 1956, quando il figlio Beppe rilevò in Alba la ditta Pru¬notto, volle ricominciare, con piccole produzioni di Asti Spumante champenoise e Rosée di nebbiolo spumante secco. Morì in Alba nel 1989.
Vent’anni prima aveva partecipato con l’amico Carlo Artusio ad una trasmissione televisiva condotta da Veronelli. Tra luci e rillettori avevano ripetuto per qualche attimo e con vera maestria l’antica professione a cui avevano dedicato l’intera vita lavorativa.
Dall’autunno 1997, la casa vitivinicola Poderi Colla commercializza le prime bottiglie di “Pietro Colla Brut”, uno spumante metodo classico ottenuto da uve pinot nero con l’aggiunta di una piccola percentuale di nebbiolo: la tradizione continua nel ricordo di un grande spumantista.